Ritorno ad Africo (a dorso di mulo)

di: Rosanna Carletti

Era il 1940.
Lo zio aveva quattro anni, mia mamma ne aveva otto.
Abitavano in una anonima periferia genovese, dove si era formato un nucleo di calabresi che per i più svariati motivi erano emigrati in Liguria, probabilmente pensando che il Porto potesse garantire il lavoro.
Loro erano nati a Genova, come il figlio terzultimo dei nonni, mentre le due figlie maggiori erano nate in Calabria.
La guerra era iniziata, gli alimenti razionati e la fame si faceva sentire.
I nonni, tutti e due quarantaquattrenni, per il bene della famiglia, presero una decisione drastica: lei e i due figli più piccoli dovevano trasferirsi in Calabria, loro terra di origine, e precisamente ad Africo, paese natale della nonna.
L’esigenza del loro trasferimento fu dettata proprio dalla fame.
Pensarono che a Genova i tre rimasti, con gli alimenti razionati destinati a sei persone, potessero sopravvivere meglio, mentre gli altri tre in Calabria avrebbero avuto la loro parte di alimenti e inoltre contavano sull’aiuto di alcuni famigliari.
Il viaggio per i tre fu lungo e periglioso.
Ci misero una settimana, in treno, ad attraversare tutta l’Italia.
Dormirono notti intere sulle panche sgangherate all’interno delle stazioni, prima di giungere a Bianco un paese nelle vicinanze di Africo.
Arrivati nella piazza principale di Bianco, polverosa e deserta, mia nonna si avvicinò ad una signora che stava transitando per chiedere informazioni su come arrivare ad Africo.
La signora mossa a compassione nel vedere una mamma con due bimbi così piccoli, sola, li accolse in casa e, dopo averli rifocillati, fatti lavare, gli fece trascorrere la notte cedendogli il suo letto. La nonna raccontò all’inaspettata ospite del viaggio, delle ansie che l’avevano accompagnata nell’affrontare quel ritorno, della miseria che erano costretti a vivere.
Appena toccato il letto, la mamma e lo zio si addormentarono sprofondando in un benefico sonno, mentre nonna fece fatica ad addormentarsi, nonostante la stanchezza, mille i pensieri che le affollavano la mente, per lei fu un sonno agitato e popolato da fantasmi.
La mattina seguente, dopo una abbondante colazione, la gentile signora li accompagnò alla periferia del paese, dove viveva un pastore che tra gli altri animali possedeva un asino e con quello accompagnava chi si voleva avventurare all’interno dell’Aspromonte per raggiungere paesini isolati, dove non c’erano né strade, né sentieri.
Ci volle un’altra intera giornata per raggiungere Africo, percorrendo, in fila indiana, impervi tracciati che si srotolavano su precipizi, per poi inoltrarsi in fitte foreste lussureggianti di vegetazione, e attraversando l’alveo di un fiume in secca, quasi arrampicandosi in quell’ambiente ostile.
A dorso di mulo, guidato dal pastore, unico asinello dove a turno, i tre, si alternavano sulla soma per farsi trasportare. A ben pensare sembra di immergersi in un quadro rappresentante la Sacra Famiglia, quando Giuseppe, guidando l’asinello, con Maria e Gesù appena nato, a dorso di mulo fuggirono in Egitto.
Giunti in prossimità del paese, sulla parte alta, la nonna guardò verso il basso, un nodo alla gola e calde lacrime le velarono gli occhi avvolgendola in un impeto di nostalgia. In un lampo riconobbe le case, mezzo nascoste dagli alberi, si rivide bambina e tutta la sua vita trascorsa in quel luogo.
Salutò e ringraziò il pastore che li aveva accompagnati in quell’impervio viaggio, prese in braccio lo zio e mia mamma per mano e si avviò verso la casa di sua sorella.
L’accoglienza non fu delle migliori.
La sorella si distingueva in quella povertà perché, oltre a riuscire a far coltivare gli orti, aveva un maiale e delle galline che teneva in un tugurio adiacente la casa.
Era considerata una donna benestante, non le mancava nulla, avida ed egoista, per il timore che la nonna fosse ritornata a reclamare la sua parte di eredità, che in quegli anni godeva lei, non volle aiutarli, anzi ci mancò poco che lì scacciasse.
L’eredità era composta da terreni accidentati, la nonna non avrebbe saputo come servirsene, da sola, senza un uomo accanto a curarli e coltivarli.
La nonna si limitò a chiedere in cambio solo alcuni vestiti per lei e per i bambini, perché non avevano nulla, proprio nulla.
L’unico che le porse un po’ di aiuto fu un cognato, fratello del nonno, celibe.
Viveva solo di quel poco che coltivava, non che si impegnasse particolarmente nel suo appezzamento di terreno.
Trovarono alloggio in un unico enorme stanzone, adiacente a un magazzino.
Diviso con una paratia di canne, aveva un letto matrimoniale in un angolo, nel lato più buio della stanza, vicino un altro lettino, più che altro un giaciglio scomodo.
Quasi al centro trovava posto il focolaio, quattro pietre a formare la parte del fornello.
Iniziarono a vivere lì, in quel paese sperduto alle pendici dell’Aspromonte, privo di un medico, dove mancavano la strada, l’acqua, l’elettricità, dove le donne camminavano scalze e andavano alla fonte ad attingere l’acqua trasportando gli orci sulla testa, e l’unico modo per rompere il buio impenetrabile della notte era quello di accendere rami di pino intrisi nella resina.
In quel paese mancava la farina e il pane era una pietra nera e dura, fatta con il mischio, farina di lenticchie, di cicerchia e d’orzo.
La fame era permanente. Nei momenti peggiori i più poveri erano costretti a nutrirsi di ortiche cotte e di ghiande abbrustolite.
Come nonna, mamma e zio riuscirono a campare non ci è dato sapere, il racconto orale che a tratti veniva alla luce dai loro racconti si confonde nello scorrere del tempo.
Lo zio racconta di aver patito tanta fame e piangeva spesso.
In uno dei suoi ricordi rivede mia mamma, sua sorella, poco più grande di lui, dargli metà del suo pasto, composto da una fetta di pane (immangiabile), strane focaccine cotte alla brace, con frutta e verdura raccolta nei dintorni, patate bollite.
Si sa che la piccola iniziò ad andare a scuola anche se in quegli anni era complicato poterla frequentare, e l’aula scolastica dove si svolgevano le lezioni, per quella multi classe, era la stanza da letto della maestra.
Le maestre che via via si avventuravano in quel paese isolato dal resto del mondo non resistevano più di due o tre mesi.
La famigliola rimase ad Africo cinque anni.
In quei lunghi anni di fame e solitudine la nonna andava spesso col pensiero alla sua infanzia, e molte delle donne rimaste in quel luogo si ricordavano di lei e della sua famiglia.
Quando lei era piccola, in quel paese sperduto abitavano molte famiglie e frotte di bambini di tutte le età scorrazzavano tra la via e il piazzale della chiesa.
Suo papà era il maestro, lavoro che svolgeva con passione, e i ragazzi avevano l’istruzione assicurata.
Era il 1945.
Tornarono a Genova alla fine della guerra e il rientro fu drammatico.
Un’altra settimana di viaggio, e arrivati a Milano ci vollero altri due giorni per giungere a Genova.
Le linee ferroviarie erano interrotte dai bombardamenti e le città devastate.
I bambini erano cresciuti, la bimba aveva compiuto tredici anni, il bimbo otto.
A Genova lo zio riprese a frequentare la scuola elementare, ma fu indirizzato nuovamente in prima classe perché l’istruzione ricevuta in Calabria non era tale da fargli proseguire le classi successive.
Si ritrovò in classe con sua nipote, figlia della sorella maggiore, più piccola di lui di due anni.
Questo frammento di racconto l’ho raccolto un mese fa – dicembre 2019 -, andando a trovare lo zio ormai ottantatreenne per gli auguri di Natale.
Abbiamo trascorso un paio d’ore piacevoli, spaziando nei ricordi della sua infanzia in Calabria, ricordi di vita amara ma che lui ricorda con una certa emozione, ogni tanto si assopiva, vinto dalla malattia che lo ha colpito, ma sempre lucido e voglioso di raccontarmi le vicissitudini della famiglia.
Dal racconto dello zio mi si sono aperti i così detti cassettini della memoria e i ricordi della mia infanzia affacciarsi prepotentemente alla memoria.
A volte, in famiglia dicevano: “Potremmo tornare ad Africo, vedere come è adesso”, ma nel corso degli anni si venne a sapere che di Africo non esisteva quasi più nulla.
Nel 1951 fu investito da un alluvione che lo travolse assieme ad un altro paesino, Casalnuovo, il paese del nonno.
Era ottobre quando una bufera di pioggia, vento e neve investì ininterrottamente per quattro giorni quei borghi, Africo e Casalnuovo, causando il crollo della montagna sull’abitato. Frane, crolli di abitazioni e la distruzione di intere colture; la piena del fiume Apiscopo impedì a molti di mettersi in salvo.
Dopo l’alluvione, negli anni a venire la popolazione sopravvissuta si trasferì sul mare, e lì diedero vita ad una nuova Africo rinominata Africo Nuovo dalla congiunzione dei due nomi dei borghi distrutti, Africo e Casalnuovo.
La nonna raccontava spesso del suo paese, nel cuore dell’Aspromonte, e si sentiva nelle sue parole la nostalgia che aveva per la sua terra; anche la mamma ci raccontava, dai pochi ricordi che le erano rimasti impressi nella mente, di quel suo periodo vissuto in Calabria.
A noi bambine, sembrava un paese molto lontano, pareva un lungo viaggio, anche perché negli anni sessanta e settanta del novecento gli spostamenti erano difficili, complicati dal fatto che i mezzi di trasporto privati erano quasi inesistenti e quelli pubblici erano, rispetto ai giorni nostri, lentissimi.
Così la fantasia galoppava nell’immaginare quel paese e la vita che le genti vi conducevano.
Ogni tanto, nelle rare occasioni in cui si riuniva tutta la famiglia, riparlavano di Africo e sempre echeggiava la frase: “Si potrebbe andare a conoscere quei luoghi”, andare in Calabria, a vedere il paese da dove nel lontano 1923-1924 i nonni, poco più che ventenni, erano partiti ed emigrati a Genova.
Quei luoghi… ormai ridotti a dei poveri ruderi.
Era il 1998.
Tramite internet i due cugini più giovani, figli dello zio, trovarono un lontano parente, nipote di un fratello del nonno emigrato in America, che, anche lui, si interessava alla storia della famiglia e di Africo; aveva il nome americanizzato di suo nonno “Mike”.
Addirittura, riuscì a costruire l’albero genealogico dove, oltre ai nostri comuni trisavoli, nel ramo dei miei nonni, suoi prozii, compariamo noi con relative famiglie; fece proprio un grande lavoro di cui ce ne regalò una copia.
Era il 1999 quando l’americano Mike decise di venire in Italia sulle tracce degli avi, con l’intenzione di incontrarci e poi proseguire per la Calabria.
Questa sua venuta in Italia ci fece balenare l’idea di andare in Calabria anche noi con uno stuolo di familiari.
Cominciò un fermento di incontri e di telefonate, tra parenti, per mettere a punto questo viaggio al quale volevamo partecipare in tanti ma poi, come accade in tutte le vicissitudini della vita, ognuno di noi ha le sue idee e i suoi problemi e rimanemmo in tre famiglie a voler portare a termine l’idea; la mia, quella di mia sorella e quella dello zio, il più piccolo, l’unico che era andato in Calabria da bambino. Purtroppo mia mamma era mancata diversi anni prima, senz’altro avrebbe fatto parte della comitiva.
Eravamo veramente elettrizzati anche se consapevoli che dell’antico paese avremmo visto soltanto pochi ruderi.
Un imprevisto.
Nella primavera del 1999 io cambio lavoro.
Non sapevo come comunicare al gruppo che forse il nostro progetto calabrese, da parte mia, saltava ed ero quasi convinta che senza di noi anche gli altri avrebbero rinunciato.

Infatti, una volta messi al corrente della situazione mi convinsero a provare a chiedere, per il mese di agosto, due settimane di ferie.
Mi feci forza e in ufficio spiegai la situazione e inaspettatamente questo progetto colpì il Capo Ufficio che, senza batter ciglio, mi accordò quel periodo di vacanza.
A luglio arrivò in Italia il cugino americano, fu ospite di mio zio, i suoi figli erano coloro che intrattenevano la comunicazione on line e parlavano e capivano abbastanza bene l’inglese.
Dopo alcuni giorni di permanenza dallo zio, pensammo di invitarlo a cena e così organizzammo una serata coinvolgendo anche gli zii e i loro figli con le famiglie.
Fu una bella festa, allegra con un intreccio di parole italiano/inglese tradotte di volta in volta dai giovani.
Un’altra serata fu organizzata, questa volta da un altro parente, fratello maggiore dello zio.
Originale.
Pensarono di preparare una cena all’aperto, nell’orto, dove a volte facevano delle grigliate.
Ci accordammo per preparare qualcosa ciascuno e non lasciare tutto il carico del lavoro a loro, che già avevano l’onere non semplice, di preparare la tavolata; l’orto non era proprio vicino a casa, bisognava percorrere la discesa di una collinetta, da bambine spesso la facevamo e spesso scivolavamo perché piuttosto in pendenza.
Gli zii però vollero occuparsi di tutto loro e quindi noi portammo il dolce facendo preparare una torta bellissima, rivelatasi buonissima, con la scritta “Welcome”.
Anche quella serata fu piacevole.
Una tavolata di diciotto persone.
La cena prevedeva un menù con stuzzichini e aperitivo, un primo piatto di pasta al pomodoro, un secondo di pesce e carne alla brace con contorno di insalata dell’orto, frutta e dolce.
Ma la cena per noi rappresentava altro; era stare assieme e provare a conoscere questa persona, venuta in Italia per conoscere le sue origini, passare alcune ore in chiacchiere e divertimento, scattare foto ricordo e progettare il viaggio in Calabria alla ricerca delle origini.
Proprio in quella serata gli zii che ospitavano l’americano si dissero stanchi di quella presenza perché tanto impegnati.
L’avevano portato a visitare Genova, accompagnato in Riviera e poi i pranzi e le cene, un impegno per loro faticoso.
Così io e mio marito lo invitammo a stare un paio di giorni da noi e lui accettò volentieri.
Con lui, in casa, sul tavolo troneggiava il vocabolario di italiano/inglese.
Furono giornate simpatiche e diverse dalle solite.
Ci raccontò un po’ di sé e noi un po’ della nostra vita.
In quei tre o quattro giorni ebbe modo di conoscere il paese dove abitavamo, fare camminate sui sentieri dell’Alta Via ammirando Genova dall’alto, una meraviglia, il porto, il mare, la città e su un lato il monte Figogna con il Santuario della Madonna della Guardia.
Intanto il progetto del viaggio in Calabria era quasi concluso.
Mio marito, sempre pieno di risorse riuscì a prenotare tre stanze in un albergo a Bianco, un paese vicino ad Africo Nuovo.
Sapevamo di avere ancora dei parenti che ci avrebbero ospitato ma non volevamo alloggiare in casa di persone che non conoscevamo, anche se parenti dei nonni.
Prossimi alla partenza il cugino americano, accampando strani presentimenti nefasti, è ripartito per l’America, dopo tanta fatica aveva rinunciato ad arrivare in Calabria.
Nel progetto del viaggio abbiamo incluso una tappa in Sicilia, così ci siamo imbarcato a Genova con rotta per Palermo.
Alcuni giorni dedicati alla Sicilia e poi riprendiamo il viaggio per la Calabria.
Il giorno della partenza per Africo eravamo molto eccitati.
Mille progetti, tante parole fatte negli anni, ora vedevano la luce.
Arrivati a Cariddi per l’imbarco, dopo aver fatto i biglietti, pranziamo in un bar, ci imbarchiamo e attraversiamo lo stretto di Messina.
Messo piede in terra calabrese, a Scilla, proseguiamo in auto in direzione Bianco.
Impieghiamo circa due ore per arrivare, era quasi l’ora di cena.
Arrivati in albergo, ci siamo rinfrescati un po’, intanto lo zio ha telefonato al cugino dandosi appuntamento in una via di Africo Nuovo di lì a una mezz’oretta.
Ci siamo ritrovati tutti in questa via, dove fui incuriosita dalla targa, apposta sul muro di una casa, che porta il nome della via: la scritta appariva sia in italiano che in greco. In quel paese usava così. Eravamo veramente in tanti perché il cugino, che venne con sua moglie, avvisò altri cugini, in tutto una quindicina di persone.
Il parente con cui lo zio era in relazione telefonico, aveva svolto il lavoro di segretario comunale ormai in pensione, ma un certo “peso” lo doveva ancora avere in quel paese perché accadde questo: proposero di andare a mangiare una pizza in un locale che si trovava proprio davanti a quella strada e mio cognato andò per prenotare un tavolo.
Ne uscì dicendo che nel locale non c’era posto, e in effetti si vedevano, attraverso i vetri, i tavoli tutti occupati.
Allora il cugino disse: “Non preoccupatevi, ci penso io”, entrò fece le sue rimostranze poi uscì dicendo: ”Tutto sistemato”, non aveva nemmeno finito di dire quelle parole che dal locale iniziò a uscire una fila di persone, bambini compresi, e la cameriera, con mille moine, ci fece cenno di entrare.
Noi genovesi, entrammo piuttosto a disagio, sentivamo intorno a noi un’aria di imbarazzo.
Abbiamo cenato, ci hanno servito ogni ben di Dio, oltre alla pizza.
Ci siamo intrattenuti fino a tardi chiacchierando per conoscerci un po’, quindi ci siamo salutati, dandoci appuntamento per la mattina dopo per andare ad Africo Vecchio accompagnati da questi familiari.
La mattina seguente, dopo colazione ci siamo recati all’appuntamento dove già ci aspettavano i parenti.
Nel cortile nacque una discussione su che automobili adoperare per recarsi ad Africo, la strada da percorrere era uno sterrato disagevole in mezzo ad un fitto bosco di lecci.
Si decise di andare con tre auto, due le nostre e una dei cugini, lasciando a casa l’auto di mio cognato perché troppo bassa per poter affrontare quel percorso accidentato.
Saliti in auto dopo pochi chilometri lasciammo il centro abitato per un percorso dapprima su una strada impervia, continuando su uno sterrato tutto fossi e macigni che interrompevano e allungavano il tragitto ma la natura di quel luogo appariva bellissima, suggestiva.
Maestosi alberi si allungavano verso il cielo, grandi radici bianche sembravano sculture scaturite dal terreno.
Il sole, filtrando attraverso i rami e le foglie, lanciava raggi che sembravano bagliori chiari rischiarando il colore del bosco.
Sembrava di fare una gimcana, sballottando a destra e sinistra, ogni tanto un salto e ancora scrolloni.
Quel bosco, quella natura bellissimi, indimenticabili.
Nessuna sosta per le foto, c’era la paura di non riuscire più a ripartire.
Con molta fatica arrivammo, dopo circa un’ora, in una località chiamata “Carrà”, coperta da immense e fitte foreste di querce e castani, nel cuore dell’Aspromonte a 940 metri di altitudine, percorrendo l’ultimo tratto su uno sterrato abbastanza regolare.
A Carrà, sulla via, troviamo una sbarra, posta orizzontalmente e chiusa con un lucchetto.
Uno dei nostri accompagnatori aveva la chiave e aprì il varco verso un gruppetto di abitazioni, abitate fino ai primi anni sessanta.
L’uomo aveva le chiavi anche di una di queste case, aprì la porta e ci invitò ad entrare.
Disse che era la sua casa, un tempo non troppo lontano vi abitavano ancora, ora, ci andavano saltuariamente.
Si accedeva alla casa salendo alcuni gradini.
Ci trovammo in una stanza piuttosto disadorna, con piccoli quadri appesi alle pareti, una finestrella in fondo rischiarava a malapena l’ambiente, vicino alla porta si trovava un lungo tavolo, sedie chiuse appoggiate al muro, un frigorifero e un lavandino, un piccolo servizio igienico ricavato in un angolo chiuso da due pareti e una porta.
Era ormai giunta l’ora di pranzo.
Dopo aver pranzato, chiacchierato, “riordinato”, proseguimmo ancora un tratto di strada sterrata in auto raggiungendo dopo alcuni chilometri un bivio.
Lasciate le auto, andando a sinistra, rispetto al bivio, si raggiungeva la chiesetta di San Leo con annesso il cimitero, a destra si scendeva verso Africo.
Percorrendo la ripida discesa, ci trovammo in un incantevole bosco di querce e melograni, continuando a scendere ci apparve un’ampia vallata verde e di fronte il paese di Casalnuovo.
Africo è stato definito “il paese più isolato d’Aspromonte” e si trova a 680 metri di altitudine.
Continuando il nostro cammino, ad un certo punto, dopo una enorme quercia ci apparve il paese, o meglio i suoi ruderi, quasi ingoiati dalla vegetazione.
Ci siamo addentrati ed abbiamo visto quella che era la scuola, l’inizio della via San Rocco, una casa devastata che conservava ancora appesa a non si sa cosa una tramezza fatta di canne.
Abbiamo visto, in uno spiazzo, una vasca in pietra dove pigiavano il vino e dove facevano l’olio e un enorme albero di noci ci regalò un po’ di frescura.
Aveva proprio l’impressione di un paese fantasma, mi emozionava pensare che lì, in quel luogo così inaccessibile, abbiano potuto far ritorno, in tempo di guerra, la nonna con mia mamma e lo zio, e lì proprio lì abbiano potuto vivere alcuni anni.
Lo zio non ricordava con precisione dove si trovava la casa dove avevano abitato e la vegetazione era troppo fitta.
Rimase in noi uno sguardo d’insieme di quei luoghi e ora, se li pensiamo, li possiamo proprio vedere, non solo immaginare.
Dopo aver girovagato un po’, tornammo alle macchine.
Raggiungemmo la Chiesetta di San Leo, dove a maggio si svolgono i festeggiamenti in onore del Santo, e il piccolo cimitero, dove le tombe sono avvolte dalla vegetazione cresciuta selvaggiamente.
Dopo aver perlustrato la zona, nel tardo pomeriggio, scendemmo dal cuore dell’Aspromonte per tornare ad Africo Nuovo.
Eravamo attesi da una famiglia, sempre di parenti dei nonni, cugini dello zio e di mia mamma.
Non sapevamo nulla di questo invito, l’accordo era nato tra i vari cugini comunicando telefonicamente ai nostri accompagnatori questa novità.
Noi, stanchi, non avremmo voluto andare, quello per cui eravamo andati in quei luoghi era stato parzialmente esaudito, parzialmente perché non avevamo potuto addentrarci bene tra le rovine; ora volevamo tornare in albergo, rinfrescarci, rilassarci.
Invece, quasi obbligati, per non urtare la sensibilità di chi ci voleva conoscere e ospitare a casa, accettammo l’invito.
Neppure un attimo in albergo: un altro cugino ci accompagnò da questa famiglia.
Era l’imbrunire, varcato un cancello, ci trovammo in un giardino, sul fondo si trovava un tavolo in plastica bianca, con alcuni bicchieri.
Davanti al tavolo due file di sedie, una di fronte all’altra.
Su una fila erano già sedute alcune persone, in un tipico abbigliamento calabrese, le donne vestite completamente di nero e gli uomini dietro a loro con abito scuro e berretto in testa.
Nella fila di sedie, poste di fronte a loro, sedemmo noi, dopo che ad uno ad uno avevamo sfilato davanti a loro, presentandoci e salutando.
Oramai era sceso il buio e nel giardino, accesa una luce, ci servirono un bicchiere di orzata.
I parenti, che ci avevano accompagnati ad Africo Antico, facevano un po’ da interpreti, perché i nuovi conosciuti parlavano esclusivamente il dialetto calabrese con sfumature greche.
Ad un certo punto, dalla casa, dove per altro noi non siamo entrati, uscì una giovane ragazza, figlia di qualcuno di loro, accompagnando una vecchietta, piccola di statura, sembrava molto vecchia.
Doveva essere una cugina di mia nonna, che era morta circa venti anni prima, all’età di ottantasei anni.
Non mancarono le foto ricordo: una foto con tutti i parenti “vincoli”, cioè noi cugine, i nostri due figli, e lo zio; un’altra foto con i parenti “accattati”, cioè mio marito, mio cognato e la moglie dello zio.
Proprio un altro mondo.
Dopo esserci guardati a vicenda, provato a chiacchierare del più e del meno, non sapendo cosa dire, dopo circa un’ora, forse poco più, andammo via da quella casa.
Era tarda notte quando rientrammo in albergo a Bianco, con l’accordo di vederci il mattino dopo per i saluti finali.
La mattina, imbarcati i bagagli in auto, salutati gli zii che sarebbero partiti subito senza ulteriori fermate, ci recammo ad Africo Nuovo all’ultimo incontro con i parenti.
Dopo questo ultimo dovuto atto di cortesia, iniziammo il viaggio di ritorno che prevedeva tappe a Matera, la città dei Sassi; Alberobello, la città dei Trulli; San Giovanni Rotondo la città di Padre Pio e Urbino.
Ad Africo Nuovo ci fermammo solo due notti, ci sembrò che l’aria stessa di quel luogo fosse intrisa di bisbigli, sospetti; probabilmente eravamo anche condizionati dai racconti che avevamo sentito e letto su quei luoghi.
Ci aveva colpito soprattutto l’episodio della prima sera, quando dalla pizzeria si era liberato un tavolo per noi che eravamo una quindicina di persone.
Un viaggio che ricordiamo come un omaggio ai nonni e a mia mamma che ne parlavano con nostalgia.