di: Andrea Petrucci
“Che cavolo mi hai dato?”
“Solo una di quelle che ti piacciono tanto Tati.”
“Sei sicuro? E poi non chiamarmi Tati. Mi chiamo Tatiana.”
Davide scuote la testa, vorrebbe ribattere, ma è abbastanza intelligente da sapere che è meglio lasciar perdere. Spingo con le braccia sulle fredde piastrelle e sputo nel lavandino l’amaro che ho in bocca. Tiro su i jeans, mi do un’occhiata allo specchio ed esco dal bagno con Davide appiccicato al culo come una Big Babol. Siedo sul divano e ho la sensazione che tutti si stiano divertendo. Una ragazza, momentaneamente padrona di casa, mi invita a unirmi all’allegro pandemonio. Alcuni ragazzi ballano il rap di Eminem facendo dondolare i bicchieri a ritmo di musica, i muri tremano e il profumo di hascisc avvolge la sala. Quando prendo la mia Reflex dallo zainetto e scatto alcune foto ai miei amici, uno di loro assume una posa da rapper e grida: “poi me le fai vedere.”
Davide torna alla carica, mi siede accanto e prova a mettermi una mano tra le cosce.
“Mi viene da vomitare” gli rispondo ricacciandolo alla periferia del mio sguardo.
In strada inghiotto aria come fosse acqua, abbasso il cappuccio e infilo gli auricolari; Smack my bitch up dei Prodigy mi terrà vigile per tutto il tempo abbassando il volume dei pensieri.
Cammino ciondolante sperando che nessuno mi noti, sfilando muri ornati di scritte inutili, cazzi e frasi d’amore iperboliche. A casa salgo fino al quarto piano con lo sguardo raso sulle scale posando i piedi a terra con delicatezza; il mio è un palazzo di quelli senza ascensore.
Vado dritta in camera, mi sfilo l’orologio e lo ripongo nel suo astuccio con la prudenza che si riserva solo agli oggetti dei morti. Poi siedo sul letto e rimango a fissare la locandina di Trainspotting sopra la scrivania. Dovrei fare una doccia, ma in breve svengo senza spogliarmi.
La mattina, col corpo di pietra e gli occhi cisposi dal sonno, mi sollevo dal letto, a tastoni nel buio cerco il mio Ericsson e controllo i messaggi; è incredibile come una specie di letargo possa tramutarsi in un istante in una veglia disperata. Mi lavo la faccia sciacquando via il trucco che non è rimasto sulle lenzuola, maledicendo mia madre perché l’acqua esce sottile e i rubinetti perdono ancora. Infilo le Converse scure, gli unici jeans puliti e il maglione degli AC/DC. Lo zainetto è dove l’avevo lasciato, sporco ma con dentro i libri nuovi. In cucina trovo una bottiglia vuota di vino dozzinale, un bicchiere e avanzi di pizza dentro un cartone. Impilati su una sedia ci sono i manifesti della propaganda Comunista, e non posso fare a meno di chiedermi per l’ennesima volta come mia madre possa ancora credere a una cosa che non c’è più. Ogni volta che ci penso, vorrei vomitare. Torno in bagno per un ritocco di nero, giusto per far risaltare il blu degli occhi.
Alla fermata dell’autobus Eva mi aspetta in motorino. Io non ce l’ho, perché mia madre fa le pulizie part-time e i miei lavoretti sono saltuari. Eva ha l’aria sempre indaffarata, come se tardando un minuto possa andarle tutto a monte. Assomiglia a un’anfora coi manici, facile da afferrare, vorace e generosa con gli uomini. Oggi ha capelli e labbra viola, gli occhi appena allungati da una matita grigia, e il volto di sempre, forzatamente felice.
“Ciao Tati. Sali, vieni con me.”
“Ti ci metti anche tu?”
È un diminutivo che mi fa pensare a una bambinaia e che per qualche motivo mi è rimasto attaccato, come un bastardino che mi viene dietro abbaiando, e di cui non riesco a liberarmi.
Ma Eva è l’unica che mi sopporta. È anche fotogenica, la scema.
“Che palle ‘ste foto! Però sei brava, dovresti mandarle a un concorso” mi fa.
“Sì, come no. Cazzo non ho il casco! L’ho lasciato a casa di... accidenti!”
“Di Davide, il tuo ragazzo.”
“Non dire cazzate! Davide non è il mio ragazzo.”
“A vederlo sembra innamorato” risponde con una punta di ironia.
“Chi ti ama è il primo che ti abbandona” replico io cercando di chiudere il discorso.
“E allora? Che ti frega! Il mio lo tratto come un cagnolino, cosa vuoi, a me la menzogna mi esce d’istinto. Se fossi figa come te, li farei morire tutti” dice Eva sorridendo a labbra serrate mentre si sistema sulla punta della sella del suo Bravo rosa shocking.
Davanti alla scuola incontriamo Luca, un compagno di classe timido e poco popolare. È con un uomo sulla quarantina alto e sottile, con i capelli castani lisci e lunghi fino al collo, gli occhi cerulei che risaltano sul viso abbronzato. In mano tiene un libro, piccolo a quanto vedo.
“Cazzo che figo! Me lo farei al volo” commenta Eva con la punta delle dita in bocca.
“Sei proprio una troia” rispondo io scuotendo la testa.
Durante la prima ora Luca si volta e mi fa intendere che alla ricreazione mi vorrebbe parlare.
Quando la campanella sancisce la mia liberazione, esco e rimango sola in un angolo del corridoio.
“Cosa fai alla finestra?”
“Guardo il mare” rispondo.
“Ma non si vede il mare.”
Aggotta la fronte intuendo di essere preso in giro.
“Scommetto che ti piace mio cugino. Piace a tutte.”
Mi imbruttisco e lo guardo in segno di sfida.
“Che cazzo dici! Non mi rompere.”
Faccio per andarmene e lui mi prende per un braccio.
“Scusa, non volevo” si appresta a dire il tonto.
Ha paura, lo noto da come mi guarda, un mix tra desiderio e angoscia. Chissà quante volte al giorno si chiude in bagno a fantasticare sul mio culo, ‘sto sfigato. Solo a pensarci mi viene da vomitare.
“È un poeta e ha vissuto in Francia.”
Un’energica spallucciata è la mia risposta.
“Era per dire” replica lui abbassando gli occhi.
“Stasera do una festa a casa mia. Ti andrebbe di venire? Ehi, aspetta!”
A casa mia madre mi chiede della scuola e come sempre sto sul vago, e come sempre ho l’impressione che in realtà non gliene importi molto. A tavola smezzo il piatto di spaghetti e mi fiondo in camera. Dopo una mezz’ora esco, infilo gli auricolari e un po' di Heavy Metal mi rimette di buon umore. Salgo sull’autobus e mi siedo in fondo in un angolo.
Il palazzo è antico e il numero civico è grande e placcato d’oro. Dal citofono una voce maschile mi chiede di salire al secondo piano. Il brusio scompare e un istante dopo si apre il portone, entro, mi fermo un attimo, mi guardo intorno e noto le cassette delle lettere, nuove e perfettamente pulite. Mi ricordano quello che mi disse una volta mia madre, che i signori le tengono linde perché le fanno pulire agli altri, ma che non per questo sono brave persone. Salgo le scale dal profumo di bergamotto con l’ansia di incontrare il portiere. La porta è aperta, lui mi aspetta seduto sul divano a gambe divaricate.
“Vieni, entra” dice, facendomi capire con un gesto di essere la benvenuta.
“Sono Tatiana, l’amica di… ”
“So tutto, vieni e bevi qualcosa” continua tra un sorriso sornione.
Non è schifoso come me l’aspettavo, ha un viso da orsacchiotto spelacchiato col naso a patata.
La stanza è grande, illuminata da deboli lampade sui quattro lati, ma la luce è bella, pulita. Odora di casa da vacanze poco usata e il design è moderno. Andrà bene, in fondo è un medico, sa dove mettere le mani; pensiero stupido che rigetto non appena si avvicina e mi pianta il pacco tra natiche. Penso che sia meglio assecondarlo e velocizzare il tutto. I pantaloni sono di cotone pesante, ma ha un notevole arnese, ed è già duro. Lo immagino come un cane in attesa del suo boccone, quando mi infila la mano dentro i jeans e mi appoggia il viso sul collo. Suda, e il sudore frammisto al profumo agrumato di colonia mi fa sbuffare. Percepisco anche odore di ospedale, ma quello me l’aspettavo.
“Se mi dai il culo ti do di più” mi dice con voce falsamente melliflua.
Mi sudano le mani e con uno scatto ruoto la testa, dico di no, che non mi va, che fa male. Lui toglie le dita ed emette un verso di approvazione, quando le annusa, mentre con l’altra mano mi piega il dorso appoggiandomi la testa sullo schienale del divano. Vorrei ribellarmi ma non posso, i soldi mi servono, e tutto finirà presto, basta stringere i denti, penso, come quando da bambina mia madre mi portava a fare la puntura. Non è uguale, ma ora sono grande. Umido e viscido si infila dentro, dapprima con l’attenzione che userebbe in una sala operatoria, poi con un colpo secco degno di un macellaio. Tento di reprimere il dolore ma non ci riesco e mi tappa la bocca, mi gira la testa, stringo i denti e l’aria spinge forte negli orecchi come quando andavo in apnea nella piscina comunale. Sembra indemoniato, ansima come uno a cui manca il fiato dopo una corsa, fino a che un grugnito lo sfianca e si blocca, mi appoggia la testa sul collo fradicio e torna a respirare. Poi un fruscìo di pantaloni, dei passi e una porta che si apre e si richiude.
“Bevi molta acqua” prescrive il medico.
Rimango immobile finché a poco a poco non crollo sul divano. Dopo una mezz’ora mi sveglio, barcollo per la sala e mi siedo con i gomiti sulle ginocchia e le mani in testa fino a quando la stanza non smette di girare; mi ha drogata il bastardo. Prima di uscire prendo i soldi che mi ha lasciato sopra il tavolo. Mi avvio in direzione della fermata dell’autobus col cappuccio della felpa che mi ricopre gran parte del viso, scartando a destra e sinistra per evitare persone che sembrano venirmi incontro come in un videogioco di guerra. A un chiosco mi siedo, bevo una bottiglietta d’acqua e mangio un sandwich. La nausea se ne va, e il mondo riprende le sue sembianze.
Alla fermata quando sto per salire suona il telefonino.
“Ciao Tatiana.”
“… Cosa vuoi?”
“Vieni alla festa?”
“Non lo so. Cosa c’è di bello?”
“Vieni e vedrai.”
Mi siedo fra lo sguardo deluso di anziani a cui non ho ceduto il posto. Cerco di convincermi che potrei divertirmi a quel tipo di feste, quelle dei bravi ragazzi. Vaglio la mia immagine riflessa sul finestrino dell’autobus e mi rendo conto che sono vestita com’ero a scuola, ma in fondo è una semplice festa tra compagni, e poi, cosa può capitarmi di peggio.
Abita in una villa circondata da un prato ricco di fiori gialli, azzurri e rosa, li vedo dall’inferriata riuscendo a sentirne le fragranze. Alcuni sembrano sorridere, alti e retti, altri sono tristi, pensierosi e diffidenti. Nel giardino alcuni compagni di classe mi salutano sollevando il mento, altri con un timido ciao. Eva flirta con un ragazzo di un’altra classe e mi fa segno di aspettare. Adiacente a una piccola fontana è stato allestito un tavolo con vassoi ricolmi di panini, pizzette, tartine, birre e aperitivi vari. Appena entro in casa, Luca mi viene incontro proprio quando suo cugino sta scendendo le scale. Eva ha ragione, è proprio un fico.
“Tu sei Tatiana, giusto?” mi chiede chiudendo la frase con un debole sorriso.
“Sì, e tu?” mi sforzo di rispondere sperando di impressionarlo.
“Sono Marco, e quel tipo al tuo fianco è mio cugino” dice sollevando il mento in sua direzione.
Si avvicina, gli circonda il collo con un braccio e con l’altra mano inizia a sfregargli con le nocche il cranio a spazzola. Luca sorride come un ritardato annuendo con veemenza.
“Divertitevi ragazzi, magari ci vediamo più tardi.”
“Aspetta, mio padre era filosofo e scrittore!” mi esce di getto, come qualcosa di represso di cui non avevo contezza.
“Interessante! Purtroppo gli intellettuali salvo rari casi non guadagnano molto. Poi ne parliamo.”
Che cazzo di risposta è? Che stronzo! Che cazzo ne sai di mio padre? vorrei rispondergli.
Si volta, prende le scale e ho l’impressione che cammini a una spanna da terra. Vorrei continuare a fissarlo fino a vederlo incenerire. Sento lo sguardo ghignante di Luca alle mie spalle, mi volto e incenerisco lui. Suda, si torce le dita e con gli occhi da gufo si sforza di dire qualcosa, lo sfigato.
“Beviamo? Mio cugino… lui beve Kir Royal e mangia… ostriche bretoni.”
“Cosa? Portami del rum e non dire cazzate” gli rispondo.
Se pensa di impressionarmi con queste stronzate non ha capito niente. Butto giù due bicchieri di Zacapa d’annata come antidoto alla noia e l’effetto è immediato.
“Devo andare. Non sto bene di stomaco” è la mia scusa migliore, vecchia ma sempre buona.
Appena entro in camera premo il pulsante del lettore cd dimenticando che è rotto. Provo con la radio e l’ultimo successo di Madonna mi fa ripiombare nella noia. Cambio frequenza e con Torn di Natalie Imbruglia vorrei vomitare. Allora mi siedo e controllo le ultime stampe notando particolari interessanti a cui non avevo fatto caso. Forse ha ragione Eva, ma con la sfiga che mi ritrovo farei una figura di merda. Vado in cucina, prendo il coltello senza seghettatura, sollevo la maglietta e il dolore arriva subito, freddo, metallico; me lo immagino come la scarica di un tossico dopo un’iniezione. Il sangue scende, si infila nell’ombelico fino a formare un laghetto. Butto il coltello nel lavandino, con un tovagliolo tampono per arginare la sottilissima ferita e un minuto dopo lo infilo in tasca come un assassino la prova del suo delitto. In camera indosso minigonna nera, camicetta cremisi, un paio di Superga bianche e riesumo cinquantamila lire imboscate in una scatola.
Appena entro al Cezanne Davide mi prende per le spalle, mi gira e mi stampa un bacio sulla bocca. In bagno, stretta contro il muro, allargo le gambe e lui entra con un colpo secco, ma quando prova a infilarmi le mani sotto la maglietta gliele tolgo.
“Sei stato bravo. Ora dammi una di quelle buone.”
Ingoio la pasta bevendo dallo schifoso lavandino e ci vuole un po' a fare effetto anche con i due angelo azzurro che mi scolo in un minuto. In sala i bagliori si intersecano formando costellazioni di luce artificiale. Balliamo, e in testa inizia la festa.
Mi sveglio in macchina con Davide e un suo amico.
“Bella botta eh!” dice Davide con uno spinello penzolante in bocca, che al solo pensiero mi fa vomitare. Mi aiutano a scendere dall’auto e mi sorreggono fino al portone.
La casa è silenziosa e crollo nel sonno vestita sotto lenzuola finalmente pulite.
La mattina entro in bagno prima che mia madre si svegli e in trenta secondi sgattaiolo fuori di casa come una ladra. Al bar sotto casa valuto l’idea di bossare la scuola.
Alla fermata dell’autobus una moto mi sfreccia accanto facendomi sobbalzare.
“Stronzo!” grido.
La moto fa il giro e torna indietro.
“Ciao Tatiana. Vuoi un passaggio?”
I suoi occhi mi abbordano e per tutto il tragitto in moto viaggio d’immaginazione. In ogni luogo mi trovi c’è lui o mio padre, a volte le loro facce si sovrappongono, non riesco a metterle a fuoco, non capisco, una sensazione d’angoscia e di gioia convivono e mi percorrono le viscere. Lo stringo forte come se volessi trattenerlo, lui rallenta e con la mano libera inizia a carezzare le mie.
A scuola non faccio che pensare a lui.
“Ti andrebbe di vederci più tardi?” mi ha chiesto mentre incrociavo le dita dietro le spalle.
All’intervallo avrei voglia di cantare e ballare, e invece mi tocca sopportare le lamentele delle mie compagne sui loro fidanzati sfigati.
“Stavo pensando di iscriverti al concorso fotografico della scuola” mi dice Eva fissando il manifesto attaccato al muro quando rimaniamo sole.
“Non ci provare!” ribatto mentre cerco di leggere in fretta tutto il regolamento.
“Mi raccomando, questo è mio” mi sussurra all’orecchio mentre mi passa un bigliettino.
Lo leggo tenendolo coperto con la mano. Penso sia meglio inviare un messaggio, così mia madre eviterà di disturbarmi.
“Pranzo e studio a casa di un’amica” è la mia seconda migliore scusa.
Mangiamo tramezzini e beviamo due spine seduti a un tavolinetto di un bar nei pressi della scuola. La ragazza che ce li serve è carina, me ne accorgo perché ogni volta che fingo di distrarmi lui le lancia un’occhiata molto eloquente. Quando si rende conto che me ne sono accorta, beve un bel sorso di birra e rimane a fissarmi oltre l’orlo del bicchiere.
“Posso farti una foto?” gli chiedo interrompendo un gioco di sguardi.
“Meglio di no” risponde serio, mentre fruga con gli occhi lo spazio intorno.
Non insisto, ma abbasso lo sguardo, così sarà costretto a spiegare il perché.
“Mio cugino mi ha detto che ne fai molte.”
“Da bambina mi piacevano le foto dei miei genitori, così quando mia madre mi ha regalato una macchina fotografica… Ora preferisco la natura” rispondo disinvolta.
La sua risata è dolce e sensuale. Fissa lo zaino sul serbatoio della Ducati e mi aiuta a salire. Gli appoggio le mani sulle spalle senza stringere troppo, anche se la pelle della giacca è morbida e vorrei posarci la testa per aspirarne l’odore.
Abita nella depandance della casa di Luca. In giardino i fiori emanano un profumo umido, eccitante.
Mi tolgo il giaccone e mi invita a sedere sul sofà. Il suo sorriso è tenero e cordiale, la musica è New Age ma non importa. Il suo sguardo saltella tra i miei occhi e la bocca, sotto l’orologio la pelle mi prude, e in un attimo le mani diventano quelle di una pescivendola di piazzale Bligny. Mentre lui si avvicina me lo rigiro sul polso per trovare conforto. Il suo ginocchio a contatto con il mio non fa che aumentare la sudorazione, e il cuore è un subwoofer spinto alla massima potenza. Con una mano mi accarezza una guancia mentre con l’altra inizia a tastarmi il seno. Lo lascio fare anche se penso di dovermi opporre, ché non ci posso stare subito, ché penserà che sono una poco di buono, e invece ci baciamo, mentre penso a quei maledetti lavoretti, alle ferite… La sua mano entra sotto il maglione, si fa strada sui seni nudi, poi giù, mi percorre il ventre fino al pube. La mia, guidata dalla sua, si muove sopra il suo sesso con lento movimento. In silenzio mi guarda con occhi guizzanti. Con una spinta mi butta distesa sul sofà tenendomi bloccata con una mano sul petto, mentre con l’altra inizia a sbottonarsi i pantaloni. Provo a sollevarmi ma mi ributta giù, ruoto la testa e noto la foto di due bambine dentro una cornice d’argento sopra un tavolinetto. I loro sguardi sono teneri e sorridenti come quelli di tutti i bambini felici perché amati dai propri genitori, ma più le osservo e più i loro occhi diventano insopportabili.
“Chi sono?”
Lui si volta, fissa la foto e in silenzio muove le labbra in maniera impercettibile. È il tempo di un attimo, distoglie lo sguardo e riprende a palparmi.
“Oh! Che cazzo fai! Lasciami!” urlo.
“Cos’è adesso non ti va? So cosa fai dopo la scuola.”
Rivedo il suo sguardo quando spogliava col pensiero la ragazza del bar. Avrei dovuto intuirlo, con la mia esperienza in fatto di maiali. Provo a divincolarmi ma lui è più forte e mi appoggia una mano sulla bocca premendo così forte che sento le labbra tra i denti. Il sapore di sangue in bocca lo conosco, ma ora è diverso, ora è rabbia liquida.
“Adesso ti domo io, cosa credi!” dice scandendo bene ogni parola per aumentarne l’effetto.
Mi stringe il collo e riesco a malapena a respirare. Sollevo le braccia cercando di colpirlo e lui reagisce mollandomi due ceffoni che mi fanno ballare la testa come a quei pupazzi da cruscotto sulle auto. Con una mano mi sfila scarpe e jeans. Le sue labbra premono di nuovo sulle mie ma ora il sapore è diverso, sento il mix di alcol e sangue. Armeggia dentro i miei slip con rabbia, me li sposta e infila due dita, poi mi scivola sopra con occhi radenti e inizia l’oscena pantomima.
Una traccia madreperlacea, come la scia di una lumaca, mi riga una guancia. Mi sollevo, piego le ginocchia al petto, le stringo fra le braccia e strizzo gli occhi fino a farli scoppiare.
“Sei stata brava, potremmo rifarlo. Ah, ti sconsiglio di raccontare quello che è successo.”
Mi strofino il viso con la manica del maglione e mi riavvio i capelli. Lui, in piedi di fronte a me, tira su i pantaloni e si sistema la camicia, poi esce dalla sala ed entra in quello che potrebbe essere il suo studio, come se la pausa fosse finita e debba ritornare al lavoro.
Lentamente mi rivesto, mi infilo sotto il cappuccio ed esco. Sei una stupida, te lo sei meritato, non faccio che ripetermi mentre per strada prendo a calci tutto quello che mi passa tra i piedi.
A casa mia madre non è ubriaca, anche se le borse sotto gli occhi le arrivano agli zigomi e i capelli arruffati sono di chi si è appena alzato dal letto. Sul viso, la brutta calligrafia del tempo scarabocchiata su e giù per le guance e sulla fronte. In Tv il telegiornale annuncia la visita di Papa Giovanni Paolo Ⅱ a Cuba. Fa un commento, affatto benevolo sul Papa. Non ho voglia di parlare ma lei insiste. Le rughe di sospetto sembrano moltiplicarsi, mentre mi fissa e mi chiede di sedere. Fingo di non prendere in considerazione l’idea, poi mi siedo, mi alzo, mi guardo intorno e mi siedo di nuovo. Sul tavolo ci sono dei macarons e una bottiglia di bianco dall’aspetto liquoroso.
“Si festeggia qualcosa?” le chiedo giocherellando con un dolcetto tra le dita.
Il posacenere è pieno e c’è odore di fumo. Esamino le cicche una a una e noto che non sono tutte della sua marca. Cerca di leggermi dentro, perché ho la stessa sensazione di quando da bambina mi portava dalla psicologa della U.S.L.
“Una volta parlavamo” esordisce lei.
“Ti vedi per caso con qualcuno?” rispondo di riflesso.
Sento l’odore aspro di quelle parole uscirmi dalla bocca, come il reflusso acido di un cocktail con il gin venuto male. L’idea di mia madre con un altro uomo mi fa vomitare. Lei non fa una piega, mi gira intorno e poi mi siede accanto.
“Perché ti fai questo?” mi chiede.
“Cosa intendi?”
“Sei magrissima e sempre spettinata. Sembri una… ”
“Prostituta?”
Si alza un vento che fa sbattere la finestra e lo spiffero mi arriva in viso. La chiude, rimanendo a guardare la bufera in arrivo e le nuvole che gravano dense sui monti dietro Genova.
“Una volta andavamo in montagna.”
Provo a rispondere ma la voce mi si spezza in gola sopraffatta dai ricordi. Lo lascio passare, bevo un sorso di vino e il respiro si fa corto. L’atmosfera è così densa da comprimermi il torace, come se mi trovassi su un altro pianeta. Credevo che avesse smesso con le sue proverbiali giaculatorie, e invece ecco che torna alla carica. La guardo con aria di sfida, ma in breve la fermezza viene meno e distolgo lo sguardo.
“Vorrei dirti una cosa.”
Lo dico con parole lente, che fanno una certa resistenza prima di staccarsi l’una dall’altra. Sorride e le si riempono gli occhi, sono innocenti, mi ricordano quelli delle mucche quando andavamo sulle Alpi. Mi tremano le labbra, annuisco e incrocio le braccia come se avessi freddo, perché so già come andrà a finire, se indagheranno sapranno quello che faccio, e poi sono maggiorenne. Allora corro in camera mia, mi sdraio e piango, una cosa che non mi capitava da molto tempo.
Bussa alla porta.
“Domani mamma. Ne parliamo domani.”
La mattina in cucina mi investe un buon profumo di caffè. Biscotti e miele sono pronti sulla tavola e non è come al solito infagottata nella sua vestaglia trasandata, è vestita per uscire e truccata bene, dimostra dieci anni di meno. Quando eravamo tutti e tre facevamo colazione con il pane caldo fatto in casa e il miele di un apicultore amico di mio padre. Erano i tempi in cui svegliarsi la mattina era dolce e l’aria in casa profumava di gerani, gardenie, orchidee o tulipani a seconda delle stagioni, e sul tavolo della cucina ogni sabato cresceva un vero e proprio giardino. Li regalava alle sue amiche, e il resto al cimitero.
In camera preparo una canna d’erba davanti alla finestra. Mia madre bussa, io non rispondo e lei entra di traverso, introducendo prima una spalla poi l’altra nello spazio di un secondo, giusto il tempo di rendersene conto. Si avvicina, mi chiama una, due, tre volte poi mi blocca la mano. Faccio per scansargliela ma lei insiste tenendomi stretta per le braccia.
“Perché fai così?” mi chiede.
Quelle parole mi mandano fuori di testa.
“Parli tu!” urlo rischiando di essere sentita dai condòmini. “Faccio quello che mi pare! Dov’è mio padre? Perché se n’è andato? È tutta colpa tua!” continuo senza farmi scrupoli.
Con uno scatto esco dalla camera sbattendo la porta.
Per strada cammino con le mani in tasca e il mento pressato alla base del collo. Di fronte alla caserma dei Carabinieri in tralice osservo il pulsante del campanello. La telecamera, come un occhio indiscreto, vigila sui miei peccati e vorrei esserci andata il giorno prima, così che tutto fosse finito. Il pensiero va ai miei lavoretti e alle facce di quegli uomini. Non le ricordo tutte, ma alcune sono rimaste impresse nella pellicola del mio riprovevole passato. Qualcuno mi guarda dall’occhio elettronico, devo farlo, devo farlo, mi ripeto stringendo forte le palpebre fino a farmi male. Il citofono parla, parole corte e fredde. Li riapro, mi volto e me ne vado.
Sul lungomare il tempo è gelido e un sole impudico mi obbliga a infilare gli occhiali da sole. Con gemiti e fischi il vento imperversa. Un giornale mi passa vicino, sembra che anche lui, con aria disinvolta, voglia andarsene dalla città. Vorrei immortalarlo, ma la mia Canon è diventata pesante come uno scoglio. Dall’altra parte della strada c’è un parco dove sono già stata con i miei amici a comprare il fumo. Mentre oltrepasso la carreggiata una moto mi inchioda davanti.
“Ciao Tatiana. Che bello vederti.”
Toglie il casco, sorride e con una mano inizia a tormentarsi il mento. Sono congelata, imprigionata in un blocco di ghiaccio come un grosso baccalà. Scende dalla moto e viene avanti. Mi guardo intorno, devo muovermi, mi ripeto, cercando col pensiero di sciogliere il freddo siderale che mi attraversa. Abbasso il cappuccio e inizio prima a camminare veloce, poi accelero fino a correre lungo il sentiero che si addentra nella pineta sperando che lui non mi insegua. Il parco è vuoto, neanche un cinguettio di uccelli. Il cuore mi batte all’impazzata mentre a grandi falcate percorro i vialetti ghiaiosi con l’aria che mi punge in bocca come la mano di un dentista impazzito. Mi accascio dietro un grande pino, prendo in mano il cellulare e cerco il numero di mia madre. Le dita sono incerte, il telefonino mi cade a terra e lui si abbassa e lo raccoglie, lo infila in tasca e mi afferra per le braccia schiacciandomi la schiena contro la ruvida corteccia. Sbatto la testa e sento quello che potrebbe essere sangue pizzicarmi la nuca, poi mi raggiunge uno schiaffo così forte che mi ritrovo distesa ad assaporare la terra umida e gli aghi di pino. Ruoto il viso per non vederlo e me lo ritrovo sopra svenuto. Un attimo dopo il suo corpo si solleva come fosse stato agganciato da una gru o qualcosa del genere.
“Sono io, non avere paura.”
La sua voce è forte e pulita, è come la ricordavo. Mi asciugo le lacrime con le nocche delle dita mentre mi prende sotto il gomito e mi aiuta ad alzarmi.
“Andiamo, non ci proverà più. Questa è tua” dice mentre mi mette in mano la macchina fotografica.
Mi lascio trasportare come un manichino della Standa fino alla sua auto, una Fiat Uno parcheggiata aldilà della strada. Si immette sulla corsia di marcia, accende una sigaretta e mi lancia uno sguardo fulmineo, mentre io non riesco a staccare gli occhi dai lacci delle mie scarpe. Dovrei urlare, insultarlo o lanciarmi fuori dall’auto, invece provo vergogna, una vergogna inconcepibile verso un padre a cui non devo nulla. Controlla di continuo lo specchietto retrovisore, accelera e rallenta dove non dovrebbe, lo osservo con la coda dell’occhio; c’è imbarazzo, come due cani che si incontrano per la prima volta. Mi inumidisco le labbra di continuo e sbatto le palpebre, lo so, me ne rendo conto, ma non riesco a impedirlo.
“Tua madre mi ha indicato dei luoghi dove avrei potuto trovarti.”
Ho un sussulto e le parole mi escono come quando da piccola mi pizzicava le guance con le dita.
“Tu sei in contatto con mamma?”
“Chi era quel tipo? Perché ce l’aveva con te? Cosa cazzo sta succedendo a questo Paese?”
Si agita contro lo schienale del sedile e abbassa gli occhiali da sole sul naso, anche se di sole ora ce n’è poco. Ha fatto la prima mossa, il ghiaccio è rotto.
“Dove saresti stato tutto questo tempo?” chiedo con la voce che mi si spezza in gola.
Fa una smorfia, poi uno sbuffo come un velato sorriso.
“In Francia. A quei tempi in Italia tirava una brutta aria. Ho fatto molti errori” dice, continuando a rimbalsare con gli occhi in tutte le direzioni.
Ruoto la testa e guardo fuori dal finestrino il lungomare deserto a pesca di ricordi. Penso ai silenzi di mia madre quando chiedevo di lui, ai commenti sussurrati quando in Tv c’erano dei dibattici politici, e agli strani personaggi che giravano per casa quando abitavamo a Milano.
“Hai al polso il mio orologio” mi chiede.
Lo stringo con l’altra mano e me lo rigiro.
“Anche io facevo quel gesto.”
Non rispondo e continuo a guardare il mare in tempesta.
“Non mi hai detto chi era quel tipo.”
“Sei felice in Francia?” mi viene da dire.
“La felicità non esiste, è una convinzione della nostra mente.”
“Mi piace la Francia. Ci sono ottime accademie di fotografia.”
Continua a parlare e a un certo punto mi rendo conto che vorrei chiedergli un mucchio di cose. Penso che forse l’auto renda tutto più semplice, perché consente a che guida di non guardare in faccia la persona con cui parla. Quando mi racconta di essersi perso per i carrugi, mi viene addirittura da sorridere. Dovrei odiarlo, ma non ci riesco.
La palestra è piena e le luci sono così intense da appiattire tutti i colori. Ci sono gli studenti del mio liceo, tutti presenti alla premiazione del concorso, Vota la foto. Eva non scherzava quando diceva che ero brava. Quando ha visto le foto dell’incantevole giardino di Luca, le si sono inumiditi gli occhi e ha pianto sulla mia spalla.
“Sai papà, non mi dispiacerebbe vincere, non ho mai vinto niente in vita mia.”
“E le gare di atletica alle elementari?” risponde mia madre.
Luca non c’è, la mia denuncia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso degli altri stupri per il quale suo cugino era indagato. La sua unica colpa è stata quella di voler far colpo su di lui presentandogli alcune ragazze. Povero Luca, non era uno sfigato, ora lo capisco.
Ci chiamano al microfono. Il preside alza l’indice a mezz’aria e ci indica. Salgo sul palco con gli altri due finalisti.
“È un grande piacere per me annunciare che il vincitore del premio è… ”
Penso a come cambino le cose, quando cambia la prospettiva e sei dalla parte dei vincitori.