La musica dell'universo

di: Benedetta Melappioni

Ho visto la struggente bellezza della morte. Qualcosa di talmente onirico eppure reale, che ho dovuto metabolizzarlo per tutti questi anni; come se lo scorrere dei giorni, dei mesi, l’alternarsi delle estati e degli inverni potesse in qualche maniera annebbiare il ricordo di quanto vidi. Ma è sempre rimasto intatto, nella mente e nel cuore.
Era la primavera del duemila-venti ed io ero un giovane e promettente cadetto dell’accademia Aerospaziale della Nasa. Avevo superato le difficili selezioni e i test psicofisici, rientrando tra i quattro eletti che avrebbero preso parte al progetto “Selene”. Dalla Stazione Spaziale Internazionale avremmo eseguito delle ricerche al fine di scoprire l’antimateria che albergava nell’universo, una delle più grandi sfide del nostro secolo. Il rilevatore di particelle datoci in dotazione dalla Nasa avrebbe rilevato eventuali nuclei di anti-elio e anti-carbonio, le particelle che compongono la materia ordinaria ma di segno opposto.
Ero eccitato come uno scolaretto il primo giorno di scuola mentre iniziava il countdown dalla piattaforma di lancio dello Space Shuttle, dalla base di Cape Canaveral, in Florida.
<<Dieci secondi>>
Con me, ingegnere aerospaziale, c’erano anche l’astrofisico Dan Smith, il fisico sperimentale Nikolaj Kravejiki e l’ex capitano dell’aereonautica militare Harry Carter, eroe pluridecorato della guerra in Iraq del duemila-tre.
Ero l’unico italiano della missione, arrivato fin lì da una piccola città che profumava di mare: Civitanova Marche; quante sere avevo passato a sognare le stelle, seduto sugli scogli del molo, all’ombra del grande faro verde. Quante notti ad immaginare quel momento che mi ritrovavo a vivere.
Carter attivò i sistemi di accensione dell’idrogeno sotto i tre ugelli dei propulsori e iniziò il caricamento della camera di combustione.
<< Sei secondi>>
Vennero accesi i propulsori.
<<Due>>
Un terremoto iniziò a scuotere le pareti dello Shuttle. Facevo difficoltà a tenere gli occhi aperti, mentre venivo agitato sul sedile, con violenza. Lo stomaco formicolava della medesima forza.
<<Uno>>
Lo Shuttle si alzò dalla piattaforma, superò la torre di controllo ed eseguì la manovra di impostazione dell’inclinazione orbitale. Entrammo negli strati più alti dell’atmosfera e nell’arco di cinque minuti e quarantacinque secondi che parvero eterni, eravamo in orbita.
Harry aggiornò il capo delle operazioni da terra e l’ovazione che ne seguì riempì le comunicazioni. Le ricordo come voci lontane però, non mi rendevo pienamente conto di quello che stava succedendo: gli occhi, il cuore e la mente erano totalmente immersi nello spettacolo che mi trovai davanti.
Un granello di sabbia che contempla un’immensità incomprensibile. Venni colto da fremiti per tutto il corpo mentre emozioni contrastanti si intrecciavano tra loro, come onde sulla riva in un giorno di bufera. Ero lì, ero io e tutto il resto non aveva più senso. Una vita intera vissuta solo per quell’attimo di eternità, ad ammirare la bellezza dell’universo a cui avevo dedicato tutto me stesso, incapace anche solo di immaginare quel che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi.
Raggiungemmo la stazione spaziale nell’arco di poche ore; la procedura di agganciamento venne eseguita alla perfezione. La casa a lungo sognata aveva aperto le porte, la ISS era finalmente mia.
Credevo che non mi sarei mai potuto stancare di stare lì, ma ben presto la novità divenne routine; come quando credi di poter amare qualcuno per tutta la vita ma un giorno ti svegli e scopri che la fiamma si è affievolita, così dovemmo fare i conti con la consapevolezza che la nostalgia della Terra era divenuto un elemento imprescindibile delle nostre giornate.
Il fallimento della missione gravava sopra le nostre teste come una spada di Damocle, pronta a cadere e a surriscaldare gli animi già provati dalla lunga convivenza in uno spazio tanto ristretto.
Sei mesi e non avevamo trovato niente.
<< Ennesimo test negativo: nessun segno di decadimento. Scomparsa.>> Dan parlava con tono piatto, mentre finiva di aggiornare il computer di bordo con gli ultimi risultati.
<< L’antimateria ha una capacità di decadimento più veloce rispetto alla materia ordinaria. Magari è avvenuto e non sono rimasti segni.>>
<<Questo dovrebbe farmi sentire meglio?>
Non sapevo come rispondere a quella domanda. Nessuno di noi poteva sentirsi meglio al pensiero che tutti gli studi fatti avevano condotto ad un vicolo cieco dal quale difficilmente saremmo usciti. Incombeva il rientro e la conseguente vergogna.
Avevo cercato di distrarmi lavorando sull’equazione che avrebbe dovuto rispondere alla domanda sulla composizione dell’Universo. Ero un fiero sostenitore della Teoria delle Stringhe, immaginando che la materia e l’energia erano entità fisiche primordiali.
Avevo inutilmente tentato di risolvere l’equazione basata sul modello di Polyakove e la frustrazione per non essere riuscito neanche in quel compito mi tormentava. Non dormivo da giorni, mi sentivo stanco, una pentola a pressione sul punto di esplodere in un imprecisato momento. Ignorai la provocazione di Dan e le imprecazioni in russo di Nikolaj, quando ancora una volta gli volò via dalle mani il cacciavite con il quale stava sistemando il rilevatore di particelle.
<< Vado a controllare i sistemi di monitoraggio esterni.>>
Dan annuì, mentre fluttuavo verso il corridoio principale. Se c’era qualcosa che in tutto quel tempo era riuscito a placare il mio animo irrequieto erano le passeggiate extraveicolari. Un momento quasi banale come il controllo delle apparecchiature all’esterno della stazione spaziale diventava un attimo solo mio, in cui il contemplare la bellezza di ciò che mi circondava e mi ricordava perché ero lì. Dava senso alle fatiche passate e alle delusioni presenti.
Indossai la tuta EMU, paragonabile nella complessità dell’operazione alla vestizione di un cavaliere medievale; pezzo dopo pezzo, strato dopo strato, era come se entrassi in un’entità a sé stante, un esoscheletro di cui io ero l’anima interna.
Entrai nella camera di pressurizzazione. Quindici minuti di isolamento prima di trovarmi estraniato da tutto. Tornai con la mente ai giorni dell’Università, quando ero solo uno studente che sognava le stelle.
La tesi di Dottorato trattava di Betelgeuse, la supergigante rossa a 600 anni luce di distanza, che nel corso degli anni aveva subito evoluzioni energetiche che avevano fatto sperare gli appassionati in una esplosione. La sua grandezza avrebbe reso l’evento come uno dei più importanti a livello astronomico e sarebbe stato visibile ad occhio nudo sulla Terra.
Una di quelle cose che capita una volta sola nella vita. Accadeva spesso che mi soffermassi a guardarla, dal grande telescopio in dotazione alla Nasa. Come se tutto quello che era stato della mia vita fosse in qualche maniera legato a lei.
Eppure, avevo iniziato a dimenticarla, mentre nuovi progetti prendevano vita e occupavano i pensieri. Era la prima volta che mi tornava in mente, da che ero nello Spazio.
Il portellone si aprì, riportandomi alla realtà con il tonfo sordo che emisero le due ante spalancandosi. Avanzai verso l’esterno, nuotando nell’assenza di gravità; mi aggrappai alla maniglia e con un piccolo sforzo uscii, tenendomi saldo al corrimano che delineava il perimetro della Base.
Quando sei lì fuori ti senti fragile, non onnipotente. Sei una cellula, un atomo infinitesimale, eppure esisti e ci sei. Fai parte di quel disegno dell’Universo. Non lo puoi plasmare, non lo puoi delimitare nei paradigmi umani, ma ne fai parte.
Le camminate all’esterno erano forse ciò che più di tutto riusciva ancora a farmi vibrare il cuore di emozione: una scimmia evoluta che si libra nel delicato e vuoto Spazio.
Mi avvicinai ai sistemi di monitoraggio posti sopra la Stazione.
<< Ti vedo >> disse Dan alla ricetrasmittente.
Feci “ok” con la mano, aprii la piccola scatola, e iniziai a fare il check.
Non saprei dirvi quanto tempo trascorse esattamente, ma ad un tratto sentii un brivido, improvviso, che attanagliò le membra penetrando fin nelle viscere. Alzai la testa, guardandomi istintivamente intorno. La realtà smise di avere senso in quel momento, divenendo un sogno, vivido e tangibile, davanti ai miei occhi.
La nube era rossa come il cielo al tramonto, con riflessi dorati come i campi di grano nelle colline intorno a Civitanova Alta, d’estate. Era vicina e si muoveva, scossa da un invisibile vento. Nel movimento così violento, sembrava quasi delinearsi una sagoma. Credetti di essere pazzo nello scorgere lineamenti antropomorfi in quell’agglomerato che avevo così vicino.
<< Dan!>> chiamai al microfono.
Nessuna risposta.
<<Dan>> gridai di nuovo.
Le particelle che componevano la strana nebbia rallentarono il loro moto. Percepii qualcosa di quella aliena figura avvicinarsi al casco, sfiorarlo. La ritrasse subito come spaventata mentre io, paralizzato dal terrore, stringevo con forza le mani al corrimano.
<<Dan, cazzo!>>
La fissavo, immobile. Continuavo ad avere la sensazione di intravedere una figura femminile, in quel movimento di polveri e gas. Scorgevo il viso evanescente e il corpo, dicromia di vermiglio e oro.
Allungò ancora una volta quella che sembrava essere una mano e toccò di nuovo la visiera del casco. Sentii la leggera pressione del palmo. Credetti di essere morto.
<< Così simili eppure diversi.>> la voce era delicata come la brezza in primavera.
<<Cosa?>> domandai con un unico fiato, con il cuore che batteva nel petto con la stessa veemenza di un pugno che bussa su di una porta.
La nube, mi tese la mano.
<< Vieni con me. >>
Mi sentivo completamente in balia degli eventi, incapace di capire e formulare un pensiero coerente e logico. Ma la curiosità è umana, è ciò che ci ha spinti a raggiungere lo Spazio, a superare i nostri limiti. Qualsiasi cosa ne sarebbe derivata, io l’avrei seguita.
Presi la mano, lasciando la sicurezza del corrimano. Lasciando la sicurezza di ciò che conoscevo per buttarmi nella profonda paura dell’ignoto.
Iniziammo a fluttuare nella profonda e inconoscibile oscurità. Il cuore era sul punto di esplodere.
<<Dove andiamo?>>
<<Voi cercate, senza sapere dove. Guardate, senza vedere davvero.>>
<<Come parli la mia lingua?>>
<<Siete voi a parlare la nostra. Siete figli di questo…>> si fermò lasciando che il mio sguardo potesse perdersi nella maestosa perfezione che avevo davanti << Lo avete solo dimenticato.>>
Guardavo la bellezza dell’Universo e lo vedevo prendere vita. C’erano altre nubi come quella che avevo accanto, di svariati colori. Si muovevano, danzavano, si intrecciavano tra loro. Ero senza fiato.
<< Che cosa siete?>>
<<Siamo stelle. Con i vostri potenti telescopi vedete solo ciò che appare, non ciò che siamo realmente; solo i vostri occhi possono ammirare la reale forma che abbiamo.>>
Credevo che il cuore sarebbe esploso, carico di quelle emozioni intense come i colori di quelle entità.
<<Perché… >> faticavo a tenere un respiro normale << Perché noi…>>
La stella non rispose subito, tenendo la mano continuò a portarmi con sé. Era come se camminasse nel nulla pieno di vita che ci circondava.
Avevo completamente dimenticato la Stazione Spaziale, Dan, Nikolaj, Harry. Tutto il mio essere era concentrato su quel momento.
Giungemmo in un remoto angolo della galassia. Un reticolato si allargava davanti a noi, un insieme di ramificazioni luminose che sfumavano dal più scuro grigio al pallido celeste. Lentamente si stava allargando, come una macchia di inchiostro su un foglio bianco.
<< Una nebulosa!>> esclamai.
Era quella l’immagine che arrivava a noi di quegli spettacolari ammassi di gas e polveri. Sentendosi osservata anche lei assunse un aspetto più antropomorfo, si richiuse su di sé, come se si fosse vergognata di essersi palesata in quella bellissima forma. Percepii il suo sguardo e la vidi allontanarsi, danzare via da noi, rapida e luminosa.
<< Sembra di guardare i vostri occhi, quando le nebulose riposano.>>
<< I nostri occhi?>>
<< Si, hanno gli stessi dettagli.>> si voltò verso di me << I tuoi occhi sono nati dal loro sonno. Per questo possono vedere la realtà delle cose. >>
Riuscivo ad intravedere i capelli che scendevano lungo il sinuoso corpo, che c’era e poi non c’era più. Era poco più di un’ombra di luce eppure sapevo che non avrei potuto mai vedere qualcosa al mondo che potesse essere paragonato alla sua bellezza. Avevo il terrore di battere le palpebre al pensiero di svegliarmi da quel sogno.
<< Vi abbiamo visto nascere, crescere, diventare ciò che siete. Abbiamo visto le vostre vittorie e le vostre sconfitte. Vi abbiamo amati fin dal momento in cui abbiamo capito che avevate qualcosa in più. Non unici, non lo siete…>> vidi un sorriso << Ma speciali >>
Non potei rispondere, ero perso nella visione di lei che appariva sempre più splendente a mano a mano che ci addentravamo negli oscuri e remoti angoli della galassia. Vagammo nello Spazio, vidi pianeti, conobbi stelle. Partecipai con lo sguardo alla pulsante danza dell’Universo.
Quando fummo davanti ai Pilastri della Creazione, il cuore saltò un battito. Imponenti torri di gas e polveri, generatori di vita, incubatrici di stelle e dalle stelle esistenti sostenuti. Le radiazioni delle neonate li erodevano, muovevano e agitavano. Un uragano potente e violento che emetteva una melodia; come se in quella violenza potesse esserci spazio per qualcosa di bello come la musica.
La Stella lasciò la mia mano e per un attimo ebbi un sussulto al timore di perdere quell’unico appiglio. Rimasi immobile, come tenuto da una forza invisibile. Fece un gesto della mano, con una scia di polveri brillanti che si dispersero, poi, si sedette aiutata come se fosse sostenuta dalla medesima forza invisibile.
Iniziò a pizzicare delle corde, che intravidi tra le luminose dita e si mise a cantare. Intonò una melodia che fece vibrare ogni fibra del mio corpo, riempì gli occhi di umide lacrime. Qualcosa di inarrivabile ed inconcepibile per l’orecchio umano ma così struggente che pensai di poter morire in quell’esatto momento e nulla della mia vita sarebbe stata vano.
Mentre suonava, come se l’Universo fosse la sua arpa, miriadi di polveri si disperdevano nell’oscurità e vidi nascere, danzando, altre stelle simili eppure diverse da lei.
Quando terminò ero in contemplazione. Lei mi fece un cenno e mi lasciò sfiorare le corde da cui era iniziata la celestiale melodia.
<< Stai toccando la materia stessa che ci circonda.>>
Erano corde simili alle Stringhe a lungo cercate. Tutto ciò che stavo studiando era vero, esisteva. Tutto aveva finalmente senso.
Avrei voluto istintivamente stringerla, abbracciarla ma appena sollevai lo sguardo verso di lei la vidi perdere luminosità. Sembrò cadere, dall’invisibile sedia su cui si era accomodata. La presi tra le braccia, soffriva.
<< Che succede?>>
Parve riprendersi un poco, si alzò, sostenuta da me. Mi guardò, senza allontanarsi.
<< Sto morendo. >>
<<Cosa?>>
<< Per questo ti ho cercato. Ho ascoltato così tante volte le tue parole rivolte verso di me. Quando ho visto che eri vicino ho sentito che dovevo mostrarti la verità…>>
Non riuscivo a lasciarla, ma una domanda si insinuò tra i pensieri, una domanda che non credevo avrebbe avuto senso fare all’inizio ma che ora non potevo non fare.
<< Chi sei?>>
<< Il mio vero nome è impronunciabile nel vostro idioma umano. Mi chiamate Betelgeuse.>>
<< Tu…>>
Non mi vergogno a dire che avrei voluto piangere di commozione nel sentire quel nome. Era la mia Betelgeuse, l’amore tra le stelle che avevo studiato, ammirato, sognato. Era tra le mie braccia, bella come non avrei potuto credere, la toccavo, la stringevo.
<< Sta per accadere. Avete desiderato sempre così tanto di vedermi morire che presto, prima di quanto crediate, sarete testimoni della fine…>>
<<No.>> ricordo la disperazione con cui dissi quella parola.
Betelgeuse si scansò da me, ignorando nella algida eppure avvolgente bellezza il dolore che provavo.
<<Ho ancora una cosa da mostrarti.>>
Mi prese nuovamente la mano e tornammo a nuotare in quel mare di elementi vivi e attivi. La musica era ovunque ora, alcune note sembravano lontanissime, altre vicine, ogni pezzo di quel mosaico aveva un proprio compito  nell’orchestra dell’Universo.
Mi portò oltre altre costellazioni a me note, mi lasciò osservare nebulose e meteoriti. Ma non avevo più la forza di parlare e a tratti non riuscivo neanche a guardarla.
Senza che me ne rendessi conto eravamo oltre la Via Lattea, in un misterioso luogo che non avevo mai visto in nessun telescopio né dalle immagini che arrivavano dalle sonde sparse alla scoperta dello Spazio sconosciuto.
<< Dove siamo?>>
<< Non posso regalarti tutte le risposte che cerchi. Posso però aiutarti…>>
Era tutto buio. Mi guardavo intorno e riuscivo solo a vedere la luce flebile che emanava Betelgeuse.
<< Non ci sono astri o pianeti?>>
<< Forse si, ma sono completamente ottenebrati da questa. >> prese un pugno di materia nera come la pece, un abisso che le coprì le mani nascondendone i lineamenti.
<< Materia Oscura?>>
<< Ora sai che c’è e che devi solo trovarla.>>
Avrei voluto essere felice, esultare, ridere per la consapevolezza che avevo avuto la prova che tutto ciò su cui avevo basato anni di studio e lavoro era reale. Che non erano stati anni persi, che i sacrifici sarebbero stati ripagati.
Ma non riuscivo a smettere di pensare che avrei perso lei. Ogni pensiero ora era unicamente proiettato sulla luce che vedevo svanire dall’evanescente figura che mi aveva portato dove con il cuore ero sempre stato.
<< Non voglio che tu muoia.>> dissi, interrompendo il flusso di pensieri che si avvolgevano tra loro rendendo difficile ragionare in maniera lucida. Lo dissi come se potessi avere la pretesa di parlare con una qualsiasi ragazza.
Avevo bisogno di umanizzarla, per sentirla un po’ più vicina, sentire che non eravamo così lontani.
<< Non qui.>>
Tagliò corto, facendo cenno di seguirla.
Riconobbi subito dove volle portarmi. La fine del viaggio era il suo ritorno a casa: la costellazione di Orione mi si palesò innanzi in tutto il suo splendente ardore.
Sotto lo sguardo severo e pallido di Rigel, accompagnai Betelgeuse sul suo trono celeste. Sfiorandole la mano. Lei si voltò verso di me, avvicinò le mani alla visiera del casco e con delicatezza la sollevò.
Provai per un attimo l’istinto di scansarmi da quel gesto che mi avrebbe certamente condannato a morte, ma il pensiero di morire così, tra le braccia della Stella era improvvisamente dolce e per nulla spaventoso. Non più del pensiero di sapere che presto non avrei più potuto ammirare la sua luce, nel buio della notte.
Non so per quale strana magia stellare, ma non accadde nulla. Respiravo, come avrei fatto se fossi stato sulla Terra a passeggiare sul lungomare o tra i Sibillini. La guardai, senza che niente potesse frapporsi tra noi.
<< Devi tornare. >>
<< Il pensiero di guardare quassù e non trovarti…>>
<< Non sono né la prima, né l’ultima stella che muore.>>
<< Sei la più bella, però.>>
Betelgeuse sorrise, poi provò una fitta che la piegò in due. La sostenni, ancora una volta, ma la sua luce era irrimediabilmente corrotta. Percepivo gli sguardi delle altre stelle, sentivo le loro pulsazioni come se il dolore per ciò che stava accadendo fosse palpabile in tutta la Costellazione. Intonarono un canto, grave, pesante. Faceva male al cuore e alle orecchie. Come se fosse la trascrizione in musica di miriadi di pianti che all’unisono si levavano.
La aiutai a stendersi, in quella porzione di cielo che brillava solo della sua luce. Soffriva ed io con lei.
<< Non puoi morire. Non adesso.>>
<< Non siamo noi, né voi, a decidere cos’è adesso. Ma non dimenticare la musica…>>
Scossi il capo. Come avrei potuto anche solo pensare di dimenticare.
Mi chinai su di lei, la nube di gas e polveri si stava fermando, la luce stava svanendo. La toccai per un’ultima volta, prima di baciarla. Come due quark che fondendosi, generano una tra le reazioni fisiche più potenti in natura, così, appena le toccai le labbra venni investito dalla potente esplosione.
*****
Il tempo è relativo. Me ne resi conto davvero quando mi trovai con le mani serrate attorno al corrimano della ISS; fu come svegliarsi da un sogno e prendere atto di trovarsi di nuovo nella realtà. Quando rientrai, disorientato e confuso, vidi che non era cambiato nulla. Era tutto esattamente come lo avevo lasciato. Nessuno si era reso conto della mia assenza, come se niente di ciò che avevo vissuto fosse stato reale.
<< Le apparecchiature sono in tilt!>> gridò Nikolaj all’improvviso, mentre finivo di togliere la pesante tuta EMU.
<< È accaduto qualcosa.>> Dan cercò di collegarsi con i sistemi esterni, cercando l’origine della cacofonia di suoni che aveva riempito la Stazione Spaziale.
Mi affacciai dall’oblò, come se fossi in un tempo tutto mio, in cui a rallentatore a malapena percepivo le voci e i rumori che mi circondavano.
In lontananza, la vidi. La catastrofica eppure perfetta bellezza dell’esplosione che aveva generato. Ovunque stavano ammirando la sua fine, occhi mortali si perdevano nel contemplare il bagliore nel cielo, mentre io, che a lungo avevo sognato quel momento, ne soffrivo tremendamente. Betelgeuse era morta. Un po’ di me con lei.
Le informazioni che mi aveva dato riuscirono a salvare la missione a pochi giorni dalla sua conclusione: le coordinate che riuscimmo a trovare, dai ricordi che ovviamente non rivelai, permisero di trovare il covo della materia oscura.
Nel giro di pochi anni diedi finalmente risposta all’annosa domanda sulla composizione dell’Universo, creando un’equazione che avrebbe portato il mio nome. Mi valse il premio Nobel nel duemila-trenta.
La musica che avevo ascoltato mentre vagavo per lo Spazio assieme alla più bella delle Stelle continuò a risuonare nella testa. Ancora adesso riesco a udirla, sempre più forte, come se un antico richiamo sia accompagnato dalle note celestiale delle Stelle.
È per questo che sono qui a scrivere queste parole, da consegnare ai posteri o all’oblio del futuro. Ho fatto tutto ciò che avrei potuto fare in questa vita, ho risolto l’insolubile, ho toccato l’intoccabile.
Non ha più senso per me rimanere ancora su questa Terra alla quale sento di non appartenere più; ho deciso di porre fine alla mia esistenza. Lasciare che il corpo trovi riposo sottoterra mentre gli atomi si disperdono fino a tornare tra le stelle.
Tornare a lei, che con la sua morte ha propagato ovunque un po’ di sé. Le sue particelle albergano ora nell’Universo, tra i pianeti, parte di lei è qui con me in questo preciso momento.
Quando anche le mie si disperderanno potranno ritrovarsi, unirsi come lo sono state solo per un intenso attimo di eternità.
Danzeremo insieme nella musica dell’Universo.