Il viaggio di Giulio

di: Giovanni Melappioni

Cara Marina, sto scrivendo dal treno che mi riporta a casa. Ritorno solo per lasciarti questa lettera, non credo di poter rimanere un attimo di più.
Giulio sentì la lacrima scivolare lungo la guancia e fermarsi, tremula, sotto il mento. Allontanò il foglio e lasciò che la tristezza si sfogasse osservando il paesaggio fuori del finestrino, senza davvero vedere nulla. Riprese a scrivere, con un respiro strozzato.
Non posso restare. Dove resti se non ricordi niente del luogo dal quale vieni, se senti di non appartenervi più? Ho provato ad afferrare il nostro passato ma tutto ciò che mi rimaneva tra le mani era quello che avevo visto il giorno prima, poche ore prima, a volte solo minuti. I nostri ricordi erano sempre grigi e grevi di polvere. Oh, Marina, non immagini che genere di cenere. Ti dissi che ovunque la vita mi avrebbe portato, qualunque uomo fossi stato costretto a essere, a te avrei rivolto il primo e poi l’ultimo pensiero della giornata. È l’unica cosa che ricordo, prima del nero nel quale sono stato gettato.
Il foglio volò via, una folata di vento dal finestrino alle sue spalle, aperto da un bambino eccitato dal viaggio, glielo strappò dalle mani.

Marina raccolse il pezzo di carta che aveva gettato a terra; tutto intorno a lei era confusione e detriti di un’intera esistenza, ma l’istinto la trattenne dall’aggiungere altra sporcizia. L’appartamento era rimasto vuoto per mesi. Le rare volte che vi entrava si diceva che avrebbe dovuto smettere di continuare a controllare quelle piastrelle, avvolte con cura nella carta di giornale e deposte in pile ordinate, ma non riusciva a non tornare. Quel giorno si era alzata con l’intento di afferrare tutti quei pezzi di vita e ridare loro un senso. La parete della sala, quella con la finestra che affacciava sul resto della città, era ancora integra. Per quante bombe avessero sfiorato il palazzo, nessuna aveva mai centrato l’edificio, e muri e soffitto era sopravvissuti alla guerra. Come per tutti quelli che ce l’avevano fatta: il corpo era vivo, ma l’anima?
La prima piastrella che aveva liberato dall’involto pesava come il passato nella sua memoria. Tanto tempo prima Giulio le aveva detto che le avrebbero posate insieme, il giorno del loro matrimonio, una alla volta, e per ognuna di esse le avrebbe regalato un verso, o un bacio. Non fecero in tempo nemmeno a vederle, le piastrelle, che giunse il buio. Appoggiò la mano sul pregevole dettaglio blu, sopra lo smalto bianco, e lo carezzò.

Il foglio, riacciuffato con urgenza, continuò a sventolargli in mano come la bandierina di una fiera di paese quando tutti sono tornati a casa, sola in un luogo di festa vuoto. Giulio tornò a sedere, spostandosi dalla corrente e dalle risate. Stirò il pezzo di carta, rilesse le parole che aveva già scritto e si domandò di nuovo cosa stesse facendo. Titubante, riprese a scrivere, lasciando che quello che dentro turbinava fra pensiero e memoria trovasse uno sfogo.
Ho provato, con tutto me stesso, a rendere vero il saluto con il quale ti lasciai. A pensare a te, ogni istante. Sono stato uno stupido ad affidarmi a questi pensieri. Il primo giorno andò bene, il secondo anche. Trovavo conforto nel ricordo di te. Ben presto però tutto divenne nebbia. Non bastavi, Marina. Cosa poteva bastare in quei luoghi dove non c’era nemmeno Dio? Non ci volle molto perché smettessi di pregare, di chiedere perdono per i miei peccati. L’unica domanda che mi ponevo era chi perdonerà i Suoi! Sì, i Suoi. Dove sono stato eravamo al di là della Sua sfuggente volontà. Lui laggiù non era presente. C’era la Morte, e c’eravamo noi che volevamo sfuggirle. Non c’era Dio. Non c’eri nemmeno te, Marina. Non c’era nessuno, lì con me.

Decise di partire dal centro. Giulio le aveva detto di iniziare da uno degli angoli, ma lei non voleva dargli retta, preferiva cominciare dal centro e lasciarsi guidare dalle linee e dagli incroci dei disegni. La prima mattonella non voleva
saperne di tenersi, scivolava sullo strato troppo denso di collante. Ricominciò da capo. Ancora una volta. E ancora. Alla fine riuscì a farla reggere, nel punto in cui desiderava che fosse. Chiuse gli occhi, provò con tutte le forze. Pianse. Pregò. Alla fine riuscì a sentire la voce di Giulio, e il verso che le avrebbe donato.
“La prossima sarà per un bacio” disse nel pianto che le strozzava la gola. Prese un’altra piastrella e la pulì con il bordo del foglio di giornale che l’aveva custodita.

Giulio pulì il foglio dalla lacrima. Tamponò con la manica la carta spessa e ingiallita. Tirò su con il naso e si stupì di quanto potesse ancora piangere, lui che per mesi dopo essere stato rasato e vestito con quel crudele pigiama a righe aveva pensato vi fosse un limite al dolore che si poteva conservare dentro l’anima. Marina. Gli parve di ricordare qualcosa che dava per scontato fosse morto.
“Forse…” mormorò.
Combatto contro me stesso per resistere al peso di ciò che ho visto fare agli uomini da altri uomini, per non raccontartelo. Ecco allora che scrivendo queste poche righe ho ricordato una cosa che credevo fosse perduta. Invece come un tesoro l’avevo sepolta sotto uno strato di terra e neve, nell’attesa che il pericolo passasse. Un ricordo di luce, e la mia mano trema nel tracciarne il suono con la matita. Forse non ricordi, forse le nostre piastrelle non esistono più, ma ora non posso trattenere la mano. Alla prima posa, nell’angolo in alto a destra, ti avrei sussurrato le parole di Ovidio, “E mi stupisco se non è questo, quello che si chiama Amore”.
Giulio scansò il foglio, con rabbia. Per un istante volle gettarlo via. Poi ci ripensò e, ripiegatolo, se lo mise sotto il cappotto. Prese la faccia fra le mani e si lasciò andare a quel ricordo. Ne seguì un altro, la fontana dove si incontravano. E un altro ancora.  Non riusciva più a trattenerli. Come acqua presa in un pugno, strabordavano. I ricordi tornavano. Era doloroso, ma salvifico. Ecco un suono, una voce. Marina?
Volle crederlo.

La parete era completa per metà. Poesie e baci si erano alternati nei ricordi sempre più vividi: la fontana dei loro incontri. Il negozio dove lui aveva acquistato gli anelli.
Il parco, il loro albero. Marina sentiva la forza che le derivava dal riprendere la sua vita in mano. Lei aveva vinto la morte, la loro casa anche. E se di Giulio non rimaneva che il ricordo, anch’esso avrebbe vinto l’oblio. Quella parete era il suo monumento alla vita. Fece una pausa, ancora lacrime, e invece lei voleva solo sorridere. Obbligò le labbra a non deformarsi nel dolore, tirò la pelle sugli zigomi. Osservò l’intreccio delle rose blu, intorno a rami e decorazioni multiformi. Ogni punto era un pezzo di lei e di Giulio, un loro istante. Lui forse non era più nel mondo, ormai aveva accettato quell’idea, ma sarebbe rimasto per sempre lì. Loro sarebbero stati l’insieme di mattonelle bianche, decorate di blu, a mano.

Giulio scese dal treno. Aveva smesso di scrivere da tempo, si era fermato al ricordo che aveva tracciato. Marina avrebbe capito. Marina. Per tutto quel tempo aveva creduto che fosse viva ma non poteva saperlo. Alla partenza era pronto ad accettare qualsiasi cosa perché gli avevano spezzato ogni volontà. Ora no. Marina doveva essere viva. Camminò con il capo chino, ricordava la strada, non l’aveva mai davvero dimenticata. Arrivò al portone del palazzo, scheggiato dalla furia della guerra. Il loro appartamento era lì dentro. Le avrebbe lasciato la busta sotto la porta, magari un giorno lei sarebbe entrata e l’avrebbe letta. Salì le scale, primo piano – Così sarà più facile con i bambini. Ne avremo tanti, vero? Sì, tantissimi. Sorrise, sentiva la sua voce ora. I ricordi erano tutti lì. Il tempo non li aveva ammazzati. Non poteva. Che stupido a pensare che fosse condannato a non ricordare più. Ancora, però, non si sentiva di
voler rimanere. Fece per infilare la lettera ma la porta era solo accostata e si aprì.
Come se un segno fosse giunto dal cielo, dalla terra, dalla memoria. Da tutto ciò a cui un uomo nella sua condizione poteva afferrarsi. Giulio non esitò. Prese un profondo respiro ed entrò.

Marina si voltò di scatto, aveva quasi terminato: era rimasto solo un ultimo pezzo da applicare. In alto a destra, dove Giulio le aveva raccomandato di iniziare e dove lei invece aveva deciso di finire. La mattonella le sfuggì di mano quando vide l’uomo smagrito e pallido che si era fermato poco oltre l’uscio. Chissà perché iniziò a guardarlo dalle scarpe: due semplici forme di cartone pressato tenute insieme da pezzi di spago. Indossava abiti lisi, non della sua taglia. Il cappotto era stinto, sfrangiato. Il colletto della camicia… Il cuore le si fermò. Il collo. Quel collo, che così magro non lo era mai stato, lo riconosceva. Portò i suoi occhi in quelli dell’uomo. Scese alle labbra. Ritornò agli occhi che la stavano fissando. Da tempo aveva perso la speranza di poter piangere le lacrime che ora le inondavano il volto.
Giulio fece un passo, poi un altro. Afferrò la mattonella da terra. Non si era rotta, così come lui non si era spezzato, né il loro amore dissolto, perché a volte qualcosa che appare fragile come porcellana si rivela, a dispetto di ogni avversità, eterno e indissolubile come granito. Le prese la mano e si avvicinò alla parete. Insieme appoggiarono la piastrella e lui, con il tono dolce e grave con cui l’aveva salutata quando lo deportarono, il tono di cui lei si fidava e che lui temeva di aver perduto, le disse «Eravamo insieme: tutto il resto del tempo l'ho scordato.»
Il bacio che li unì durò per l’eternità di cui sono fatti i desideri, e le speranze.