L'ultimo viaggio

di: Marinella Marsiglia

La vita è un viaggio anzi è un insieme di tante partenze dove non occorre portarsi dietro le valigie perché   ogni viaggiatore, se sa cercare, ha in sé, tutto quello che gli occorre.
Potrei anche immaginare il viaggio come un grande bosco, con gli alberi che s’innalzano, ora tutti frondosi, ora incerti e nodosi secondo la loro natura e il contesto che li circonda.
A sei anni   non vedevo l’ora di partire con “quell’orribile mostro” di ferro nero, come diceva il Carducci, mostro, che da una parte mi incuteva paura e dall’altra mi affascinava. 
Il mio primo viaggio lo feci a dieci anni, la meta era Roma per me la realizzazione di un sogno, per i miei invece, la triste risposta alle sofferenze di mia madre.
I viaggi spensierati e indimenticabili, dovrebbero   essere i primi quelli scolastici; partenze festose con i compagni, colmi di risate, invece quello che feci nelle Medie, fu decisamente triste.  Durante il percorso si parlò poco e piano; ogni tanto una   voce querula e lamentosa, interrompeva le   nostre   piccole   confidenze con    preghiere e canti. La nostra vecchia Preside, troneggiava tra le attenzioni premurose delle suore, sempre agitate sul da farsi.  Comunque Assisi e il lago Trasimeno, mete della mia gita scolastica, mi colpirono molto, soprattutto i dipinti di Giotto, così graziosi per la loro semplicità e il lago che più un lago, mi sembrò, un piccolo mare fuggito per nascondersi e meditare nel verde delle colline umbre.
Considerai allora che non era tanto il viaggio che ci doveva interessare, ma la meta per cui si andava, ma in quell’età ancora tenera, partire, per la prima volta insieme alle compagne, era per me una grande grande festa.
Oggi considero che i nostri ragazzi, siano molto più disinvolti da quelli dei miei tempi (anche troppo) perché hanno avuto più occasioni. Già  da piccoli  hanno viaggiato  molto  con  i  loro genitori e se anche al tempo non hanno compreso quello che vedevano, hanno assimilato il senso del viaggio,del cambiamento, le novità che si possono ricevere  da  ambienti  e persone diverse, per cui  a diciotto   anni (anche  prima,) si affacciano alla vita  con   meno timore e quando spunterà quel  giorno  importante   nel   quale dovranno dimostrare  la loro capacità andando  a studiare o a lavorare   fuori   città   o  addirittura   all’estero,  proveranno meno disagi ma  non per questo saranno immuni dalla solitudine che prenderà comunque e sempre in   un  paese straniero. Questa volta si è veramente soli e nonostante i nuovi amici e la facilità per la lingua, la famiglia mancherà terribilmente e sarà proprio questo il momento di tirar fuori il vero spirito di adattamento e tutte le forze per una   possibile convivenza.
Poi ci si abitua, ci si abitua a tutto e il fatto di essere giovani è complice e si resta ancora un poco, rimandando di volta in volta il ritorno. Ma quel treno sarà sempre più lontano, forse non arriverà più. Così scrivevano i miei nonni oltre Oceano con le lacrime agli occhi.
“La meta è partire” così diceva il poeta Ungaretti.   È necessario quindi uscire dal proprio ambiente per fare nuove scoperte. È una gioia incontenibile specie se si è in compagnia degli amici; è un’esplosione di libertà sfrenata e al tempo stesso, la manifestazione della propria personalità spesso repressa.
Ricordo che solo in vacanza con le mie amiche, osavo mettere il rossetto e fumare la sospirata sigaretta.  Oggi viaggiando queste emozioni non sono più sentite come un tempo ma “uscire” è sempre una parentesi dolce e necessaria.
“A vent’anni o, anche meno, già con il fidanzato ufficiale accanto” mi raccontava   mia nonna si pensava al viaggio di nozze come un grande traguardo. Il corredo era   pronto e il vestito bianco (veramente meritevole), attendeva speranzoso nell’armadio, mancava solo quel si, sussurrato davanti al Sacerdote, eppure le ragazze prendevano   tempo,    erano   timorose  per   quel   viaggio   che   avrebbe   cambiato decisamente  la  loro  vita,   Oggi   che  diresti ,  nonna  cara di fronte  ad   una  realtà completamente  sconvolta  dove  i  tuoi  sacri, inviolabili valori sono stati dimenticati, calpestati, dove ogni gita in macchina può essere un viaggio di nozze.
Una mia collega mi raccontava ridendo, che in Sicilia, la sua terra, c’era ancora la “fuitina”, piccola fuga, sistema che usavano spesso gli innamorati, quando erano seriamente contrastati dalle famiglie “…alla fuga malandrina,” continuava la mia amica, cambiando voce e abbassando gli occhi, “seguiva sempre il Matrimonio riparatore.”
Un’uscita pure   lontanissima si può fare anche senza viaggiare: talvolta il desiderio è tale, che la fantasia, unita alla bontà dell’uomo, supplisce la lontananza.
Ricordo infatti di aver letto all’epoca su un giornale che un bambino americano, innamorato di   Pinocchio, voleva   conoscere la nostra Penisola, ma come avrebbe   potuto essendo gravemente malato? Ma l’Italia intera si commosse al caso e con doni e   moltissime cartoline illustrate, andò da lui, recandogli oltre alle foto di tante belle città, anche le espressioni più affettuose per una pronta guarigione.
Pure   gli animali viaggiano, per nuovi cieli, per acque più pulite o per verdi pascoli: Chi non ricorda l’immagine viva e intensa che ci ha lasciato il grande poeta abruzzese nei “Pastori” …ecco scendere le pecore con il tintinnìo dei sonagli fra il grande fragore del mare.
Gli insetti, anche piccolissimi, fanno i loro viaggi. Una volta vicino le Gole dell’Infernaccio, nei Sibillini, rimasi incantata ad osservare una fila di formichine che a loro modo viaggiavano cambiando casa.  La fila era lunga ma procedeva rapida, ogni formica portava la sua valigia, chi un seme, chi   una piccolissima bacca, quelle più importanti andavano avanti tenendo alto, come dei chicchi di riso bianco: Erano le larve, le future formichine.
Ma viaggiare, non significa solo andare fisicamente in un altro posto, lo si può fare senza alcun movimento, fermi, magari incantati sulle sponde del proprio letto.
Mi succede spesso quando una piccola cosa un nonnulla, schiude causalmente l’onda   gravida dei ricordi, allora quel mondo infinito, si apre in un baleno, i frammenti del passato si cercano, si ricongiungono, s i risaldano, ed ecco…. quel dolce momento… quel volto perduto…  Poi torna inesorabilmente la cruda realtà, il viaggio della memoria   svanisce in un lungo e profondo sospiro.
Tante volte   mi chiedo cosa provò il poeta Leopardi quando tolse lo sguardo dall‘ Infinito, da quella scintilla che l’Eterno ci ha regalato nel primo istante del   nostro viaggio.
Nella mia camera, spesso d’inverno osservo un raggio di sole che mi viene a trovare; entra festoso per fare il suo giro di luce: È il mio compagno silenzioso. Prima ndora le   tende, poi   si posa alto sull’armadio, quindi scende per accarezzare sul comò una foto dei miei.  Sulla porta sembra attardarsi, come aspettare un poco, infine si colora di rosso e si spegne lentamente sul Crocefisso come una lunga e accorata preghiera.
Oggi, non viaggio più, l’età e i suoi fastidi, mi impediscono questa grande evasione, ma se non posso fuggire dalla realtà fisicamente, lo faccio ugualmente con il pensiero, nel ricordo più amato per una grande città: Firenze. È il mio luogo preferito dove la storia, l’arte e l’armonia si respirano ampiamente con l’odore del legno antico e della pittura, dove i miei ricordi riprendono vita e si colorano di tenere dolcezze.
A quindici anni vi ero stata solo di passaggio, ma di fronte alla grandiosa bellezza del Duomo, giurai a me stessa che ci sarei ritornata. Si, certo, e mantenni la promessa per più di cinquanta volte.  
A spingermi nella seducente città toscana, fu soprattutto mio marito Renzo che vi era cresciuto fino alla soglia dell’adolescenza, poi venne un trasferimento, ormai dimenticato, lo strappò improvvisamente dal capoluogo e dai suoi amici. Il dolore fu lungo e la nostalgia e il rimpianto trasparivano spesso dalle sue parole.
Iniziammo così, insieme, il primo viaggio a Firenze, quello di Nozze. Poi negli anni che seguirono, ci furono ritorni e ritorni sempre affamati e attratti dalla magia della terra Toscana in modo particolare dalla regina fra le sue città.
Le continue visite ai musei, alle mostre, alle pinacoteche, ci arricchirono cultural –mente e nello stesso tempo ci permettevano di accarezzare sempre e sempre i luoghi che avevano allietato la sua infanzia: Il Lungarno Cellini, dove aveva abitato con la sua famiglia, San Niccolò, il quartiere degli amici, il Piazzale Michelangelo, l’amico dei giochi e soprattutto la sua prima Scuola: La Demidoff.
Non solo la città del Giglio era d’obbligo nei mesi feriali, ma qualche volta eravamo   presenti   anche in quelli lavorativi con varie giustificazioni, come visite specialistiche o addirittura per premi letterali, Viaggi, piccole fughe che alimentarono sempre più, per anni, l’attaccamento per Firenze e per gli amici fiorentini
Poi… forze cominciarono ad abbandonare mio marito, una volta salì con grande fatica sul solito treno quello che più mi spaventava, era la sua mente che si avviava     lentamente all’oblio.  Iniziò implacabile il periodo triste della sofferenza; ogni   giorno era colmo di   nuovi tormenti che solo la forza del nostro affetto riusciva a superare.
Un pomeriggio di primavera, lo sorpresi piangere davanti al televisore, aveva visto Firenze e mi accennava, come poteva, la sua sofferenza. Lo abbracciai commossa e glielo promisi: Si, ci saremmo tornati a qualunque sacrificio, ma bisognava far presto, perché tutte le sue condizioni fisiche, cominciarono a peggiorare in modo particolare anche la mente perdeva la sua luce.
Quella mattina limpida di Settembre arrivò il taxi e partimmo contenti ma anche preoccupati, considerando anche le difficoltà che avremmo incontrato. Conoscevamo bene il percorso, tanto amato ma ora, per noi, era diventato uno ostacolo da superare.
Comunque arrivammo, questa volta la città stessa ci venne incontro gioiosa rumorosa con il suo splendore e   il suo magico incanto sempre pronta a festeggiare, ma   andammo subito al “nostro” albergo in Via Cavour   per   riposare.  I giorni successivi furono intensi, facemmo con il taxi corse su corse cercando di rivivere e riassumere più ricordi possibili. Mio marito sembrava riprendersi, poi tornarono le       crisi, terribili perché non riusciva più a comunicare verbalmente quello che provava, ma capivo dal suo sguardo che si sforzava per non precipitare nel vuoto mentale; era nella sua adorata città, e non poteva annegare nell’oblio.
Spesso, riconoscendo un portone o un giardino, viveva ancora sensazioni particolari, che io, non potevo né sapere, né condividere ma sentivo con lui la certezza cruda e muta dal profondo del cuore che quello era l’ultimo, l’ultimo viaggio.
Il solito taxi ci venne a riprendere; pioveva quella mattina, come se anche la città si commovesse per il nostro distacco.   Sistemammo i pochi bagagli e prendemmo silenziosi i nostri posti. Percorrendo il famoso corso, subito Palazzo Medici Riccardi,  ci salutò sulla destra, poi Santa Maria del Fiore che come una mamma ci abbracciò forte con il tocco delle sue campane, grave e appassionato; le voltammo le  spalle,  mio marito si girò e la seguì ancora con lo sguardo, poi, una volta scomparsa, sussurrò solo due parole:  “Firenze  addio.”