Il viaggio di Laura

di: Paola Verole Bozzello

Sul grembo un lavoro ai ferri appena iniziato; troppo presto per dire se sarà uno scialle o altro.
I gomitoli dai colori tenui che occhieggiano dalla cesta lasciano intuire già qualcosa sul gusto delicato della donna, che siede composta in poltrona, ieratica, circondata da un microcosmo
ricostruito, fatto di immaginette incorniciate, centrini all’uncinetto e vecchie scatole di latta smaltata, dove ha stipato chissà quanti ricordi.
I solchi del viso tradiscono l’età, ma non è solo quella a gravare senza misericordia sul volto.
Sono ben altre le vicende che l’hanno segnato, negli ultimi tempi soprattutto.
L’appartamento è stato riordinato con cura, anch’esso pronto a fare una buona impressione, benché la parte migliore sia la terrazza, che corre lungo tutto il perimetro della casa; l’interno
rivela in più punti macchie d’umidità ostinata, ma il locale era stato preso in affitto in fretta, senza poter andare troppo per il sottile.
Fuori la vista spazia ovunque e non ci si stanca mai di guardare l’orizzonte.
Laura non si aspetta granché dall’incontro, ma tanto vale assecondare la richiesta ricevuta e presentarsi, sempre, con il giusto decoro. Se qualcuno si interessa a lei un motivo ci sarà e, in
definitiva, non ha ragione di preoccuparsene. Nientemeno, potrebbe addirittura divertirsi; di sicuro non sarà lei ad annoiarsi, dopotutto ha tanto da raccontare.
Tre minuti dopo le quattro, al suono del campanello, due epoche e due pianeti totalmente differenti si trovano faccia a faccia. Si studiano, come farebbero gli animali, al contempo con
curiosità e diffidenza. La giovane ha un vantaggio competitivo enorme, tutta la vita davanti e la grinta per affrontarla. Ma non c’è sfida che tenga, è già chiaro in partenza che la leonessa è
Laura e, con la gentile fermezza che le è propria, l’anziana rompe il ghiaccio, offrendo un caffè che la giornalista non può rifiutare.
Lap-top sulle ginocchia, dita affusolate pronte alla tastiera, la giovane si predispone all’ascolto.
Le è bastato un colpo d’occhio per capire che non sarà un’intervista; non darà lei le carte né condurrà lei il gioco. Il viaggio è tutto nella mente di Laura, lei sola è la regista dell’incontro.
La piccola donna ossuta, che da qualche mese combatte anche con i reumatismi, si lascia andare mollemente in poltrona e, socchiudendo gli occhi, s’abbandona in un respiro lunghissimo. Sembra che in quella manciata di secondi voglia riarrotolare il nastro dei suoi novant’anni. Novanta anni, mille e ottanta mesi, quasi infiniti giorni.
No, non sarà un racconto cronologico, non ne ha la forza e neppure riesce più a tenere ogni cosa a mente in ordinata sequenza. Andrà a braccio, quasi incurante della silenziosa amanuense digitale che le siede davanti.
La nostalgia, la malinconia, la sofferenza del distacco io non le ho mai patite, né ho mai avvertito lo struggente desiderio del ritorno. Questi sentimenti proposti in ogni salsa, in tivvù e
nei libri, non so cosa siano. Sicuro che certe emozioni esistono; gente che parte, che fugge e desidera tornare ce n’è sempre stata, ma questi turbamenti non li conosco, perché non mi sono mai spostata.
Eppure, ho tanto viaggiato.
Si dice che chi non viaggia per davvero, muovendosi fisicamente, può farlo sulle ali della fantasia; ma no, non è stato in questo modo che ho vagabondato un po’ qui e un po’ là. Il mio
mondo era concreto, oggi si direbbe pragmatico; scrivilo come preferisci – ti do del tu, cara, perché sei tanto più giovane di me. Di fatto, non c’era spazio per il gioco, per divagarsi, per
tutte quelle attività che ci sono ora, che paiono fatte apposta per distrarre dalle questioni importanti. Una parola come relax avrebbe avuto il sapore di una presa in giro. Davvero, nessuno l’avrebbe compresa. Solo la malattia poteva fermarci.
La cosa essenziale, allora, era non stare mai con le mani in mano; non so se mi spiego. Vedi, c’era sempre qualcosa da fare, anche quando tutte le faccende del giorno erano concluse e le
imposte serrate: sferruzzare, pregare sgranando il rosario; oppure sgranare i piselli, sempre pregando. Era il lavoro quello che catturava tutti, piccoli e grandi, uomini e bestie. Si restava
bambini per poco; le carezze, veloci, duravano appena un lustro e poi via, via a badare ai porci, alle capre, alle pecore. Via a mungere le vacche e a schivare i calci di quelle indiavolate. Via a spazzare, rassettare, rammendare. Conosci queste parole? Ho paura che ora non si usino più, peccato. Peccato perché sono parole vere, che indicano fatti e pesano chili, fatica, sudore; non quelle diavolerie che oggi ci sono e domani svaniscono.
Ho ascoltato un programma alla radio, proprio ieri. Parlava di realtà virtuale, realtà aumentata e altre incomprensibili farneticazioni. Mah, ho paura che in fondo siano tutte fantastiche fesserie!
E lavoro era anche accudire i vecchi, imboccarli, lavarli, rivestirli e sopportare le loro bizze.
Vecchi che non avevano neppure più la forza di raccontare, consumati dalla vita. Solo in apparenza svuotati di ogni sentimento, in verità scrigni di ricordi ormai inaccessibili, blindati
dietro occhi bianchi.
Si dice anche che per viaggiare basti leggere. E che stando comodamente seduti, scorrendo ad una ad una tutte quelle righe, mangiando con gli occhi quei tomi, si riesca a superare confini, ampliare gli orizzonti, conoscere persone e fare nuove esperienze, respirando ad ogni lettura una brezza che dona nuova vitalità.
No, non è stato neppure questo. E me lo spiego bene, perché a leggere ho imparato da adulta, quando era già un quarto di secolo abbondante che sgobbavo senza risparmiarmi. Leggere e
scrivere a una come me, come noi, non serviva. Erano le braccia e le gambe a dover essere agili e robuste, non il cervello.
In testa avevamo due, tre concetti soli, ma solidi come querce. Principi che ci porteremo sino alla tomba e che riempivano i nostri giorni. L’onore, il lavoro, la famiglia. E Dio. Sì, c’era lui
pure, anche se a volte pareva dimenticarci, lasciandoci nella miseria più cupa.
La fame e il freddo, buon per te, ora non sai neppure cosa siano e, se la corrente manca per mezza giornata, impazzisci; noi invece abbiamo vissuto nell’indigenza e ormai non ci spaventa
più nulla.
C’è però una parola su tutte a ricordarmi la peggiore disgrazia e ad inquietare ancora le mie notti. La guerra.
Ma a te non interessa sentir parlare di conflitti, interessa il viaggio.
Molto tempo dopo la guerra e per una serie di circostanze propizie ho iniziato a viaggiare, in un modo del tutto inconsueto, non come una persona comune può pensare.
Hai presente un compasso? Beh, delle due aste quella con l’ago sono io, tenacemente conficcata nel terreno, immobile. Dunque, come posso essermi spostata?
Da piccola non avevo idea di cosa fosse un viaggio, né cosa fosse un posto diverso da quello cui appartenevo.
Il viaggio, semmai, era il tragitto che compivo ogni giorno per portare la gerla con il pranzo nei campi, ai contadini che ne trangugiavano il contenuto in un baleno, restituendomela di lì a poco insieme al fiasco vuoto. Il mondo era quello, non mi domandavo se ce ne fossero altri. Non mi chiedevo neppure delle altre persone, di cui pure sapevo l’esistenza. Antonio, che veniva da basso con il suo carretto a caricare il nostro latte appena munto. Arrivava, stava il tempo necessario e andava; già vederlo scomparire oltre l’orizzonte avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa, invece non mi curavo di lui. Non ero curiosa abbastanza da domandare dove fosse diretto, se vicino o lontano. Perfino la sorte del nostro buon latte sembrava non interessarmi. E
come lui, c’erano il postino Enrico, che ogni due mesi recapitava a Celestina le lettere della sorella emigrata, il Dottor Alfonsi, medico della mutua, quando lo vedevi ti facevi il segno della croce e Amerigo il tuttofare, che arrivava dalla pianura per piccole e grandi riparazioni.
Gente che nell’arco di un paio di muggiti aveva fatto in tempo a venire e andare.
Per una donna che non si sposava, perché lo aveva deciso lei o altri per lei, erano aperte le porte del convento oppure quelle di qualche casa in città, dove andare a servizio. Con l’aiuto di
mio fratello ho evitato entrambe le cose. Abbiamo aperto una modesta pensione proprio nel cuore del paese. Nel frattempo, un vecchio prete amorevole e paziente mi insegnava a leggere,
scrivere e far di conto.
Detto così, in poche parole, puoi ingannarti, credendo che sia stato tutto facile e veloce, mentre ogni cosa è stata frutto di un impegno inaudito, compiuto con cieca determinazione e a piccoli passi; giorni di lavoro, notti di studio e la ferma volontà di non lasciare la propria terra per tentare la fortuna altrove, aprendo invece la porta agli sconosciuti.
All’inizio e poi ancora per molti anni la pensione ospitò perlopiù gente che transitava di lì per raggiungere o rientrare dalla capitale. C’era un viavai continuo di commessi viaggiatori e
procacciatori d’affari; uomini ben vestiti che avevano molta fame ma poca voglia di parlare.
L’osteria, annessa alla pensione, la aprimmo proprio per loro, per alleggerire quelle giornate di viaggio altrimenti fatte solo di chilometri percorsi in solitudine tra una valle e l’altra.
Ti sembrerà curioso, ma dalle nostre parti il turismo montano era molto indietro rispetto quello costiero. Chi aveva denaro da spendere preferiva andare al mare o al lago. Oppure a sciare sulle Alpi.
Il soggiorno in montagna prese piede molto più tardi, quando maturò la passione per le vette e il piacere di muoversi tra la natura incontaminata. Ecco, quindi, che la nostra pensione, pian
pianino, iniziò ad essere frequentata dagli amanti della montagna e da allegre famiglie.
Proprio allora ho iniziato a viaggiare.
E’ incredibile quante amicizie puoi stringere in una modesta pensioncina, pure se non ti muovi di un metro; quanti clienti vengono e quanti ritornano, ogni volta portando con sé una ventata
di novità, storie di vita e di luoghi prima ignoti.
Ho conosciuto il mondo attraverso i loro racconti e i loro occhi vivaci e appassionati.
Il viaggio più bello? Oh... è difficile da dire, ognuno lo è stato a suo modo. Forse in Olanda, tra i mulini a vento e le distese infinite di tulipani colorati, lucidi come vernice; ma anche nella
selvaggia Bretagna, con le sue scogliere e i suoi fari, frustati dall’irruenza dell’Atlantico e dal vento del Nord, magari gustando quelle crêpes che solo a sentirne parlare fanno venire l’acquolina in bocca! Ma anche in Spagna, certo! C’era quella famigliola venuta per tre anni di seguito, da un posto poco fuori Madrid, Barajas mi pare di ricordare. Facevano un viaggio
lunghissimo per giungere sin qui, ma quando arrivavano erano loro a portarmi in Spagna.
Dicevano che come le mie montagne da loro non ce n’erano, eppure avevano a due passi la Cordigliera Centrale e anche i Monti Iberici. Ebbene, preferivano venire qui perché i bisnonni
di lei erano del centro Italia e, vivendo un po’ la terra d’origine degli avi, credevano di celebrarne la memoria. La mattina di buon’ora, attrezzati con zaini e scarponi, si inerpicavano su per uno dei tanti sentieri e rientravano solo nel tardo pomeriggio quando, seduti attorno al tavolo che vedi qui in foto, si riposavano raccontandomi del loro paese. Ho appreso le bellezze di una metropoli solo in apparenza fredda, in verità sanguigna e vivace. Di Madrid conservo foto, cartoline, il sapore del baccalà fritto accompagnato dal vino bianco, la meraviglia delle ceramiche locali, il sapore intenso della paella, la passionale crudeltà della corrida e quella lingua meravigliosa, liquida, calda e musicale che fa vibrare il cuore.
Purtroppo, non ho potuto portare qui con me molti ricordi. Questa sistemazione, oltre che temporanea, è insufficiente a contenere i souvenir che i turisti mi hanno recato dalle loro terre in tanti anni di pensionato. Foto, cartoline, calendari, oggetti di ogni tipo, ceramiche, stoffe, splendidi cimeli che ormai resteranno solo nella mia memoria. Ho salvato solo queste poche cose che ho raccolto sul tavolino da tè, una miseria. Ormai mi devo accontentare delle briciole.
Comunque, a volte non è neppure necessario andare troppo lontano per sperimentare qualcosa di diverso, sai? Perché tra tutti i luoghi quello di cui mi sono davvero innamorata è il nostro
Meridione. C’era quella coppia di arzilli pensionati pugliesi che mi è rimasta fedele per anni e con cui ho intrattenuto un proficuo scambio epistolare anche in seguito, quando per loro non
era più agevole viaggiare. Mi hanno invitata tante volte a trascorrere una vacanza nella loro masseria e, per certi versi, l’idea mi ha tentato in più di un’occasione. Ma al dunque ho sempre
rinunciato, preferendo vivere quell’esperienza attraverso le loro parole. Chissà, forse ho avuto paura di restare delusa da una visita diretta, preferendo invece continuare a fantasticarne.
Mi sembra davvero di aver visto con i miei occhi i colori del mare cristallino il cui blu sfuma mutevole nel verde smeraldo, quel mare che increspandosi bizzoso al vento si infrange in
candida spuma sulla roccia acuminata, mentre il sole rovente che ustiona ogni cosa, scalda le ossa e regala ai frutti un sapore intenso. Credo quasi di aver assaporato l’odore della terra rossa intrisa di ferro e sudore, e di fichi e pomodori stesi ad essiccare sui tetti piatti, così come i muretti a secco, che delimitano le proprietà di campi di ulivi dai tronchi secolari, piegati come uomini sofferenti; quei muri in pietre irregolari che costeggiano tratturi e vecchie strade comunali, ancora oggi percorse da anacronistici mezzi cingolati, dove escursionisti in bicicletta
si avventurano per respirare il passato, tra distese di eucalipti, fichi d’india e rovi, mentre lontano spicca il riverbero abbacinante di paesi bianco vestiti. Il sapore di quelle pietanze povere, oggi ripescate da cuochi rinomati; fave e cicoria, polipo e patate, ciceri e tria, pezzetti di cavallo e dolci di pasta di mandorle, che sprigionano il gusto sfacciato delle cose troppo buone per fare anche bene. E la frisa d’orzo, con pomodoro, olio, sale e origano a ricordare le origini, il lavoro con qualsiasi tempo nei campi e nei fienili. E ancora quell’odore forte di ricci di mare che confonde la vista e i sentimenti, il vino rosso che scende giù in gola come lava, trasportandoti in un peccaminoso altrove. Ma le sorprese sono infinite, pure in una terra non troppo lontana che banalmente credevo fatta solo di mare e campi. Perché il tacco d’Italia è anche pietra leccese, tenera e malleabile, che mani sapienti trasformano in sculture e monumentali costruzioni. E’ artigianato in terracotta e ceramica e musica e torri di avvistamento su scogliere a strapiombo per difendersi dalle orde piratesche del tempo andato.
E chissà quante altre cose non so o non ricordo di queste persone solide dai grandi piedi e dalle grandi mani, divise tra una fede cieca in Cristo e la superstizione che da secoli si porta appresso il culto per la pizzica e la guarigione delle tarantolate. Stentavo a credere che i miei amici, prima di venire a pensione da me, quasi non sapessero cosa fosse la neve, né le montagne né tantomeno, come dicevano loro che parlavano come un libro di scuola, i movimenti tellurici.
Non vorrei tediarti oltre, cara, ma permettimi a questo punto di raccontarti un aneddoto. Ti ho già detto del mio spasimante bolognese? Oh sì, anch’io ho incontrato qualcuno che avrebbe
voluto farmi sua sposa, questo però aveva addirittura intenzione di portarmi via e la storia, credimi, proprio per questo non decollò.
Era un signore d’altri tempi, vedovo, un vero galantuomo, si diede per vinto a malincuore e solo dopo avermi a lungo corteggiata. Era adorabile, lo ricordo con affetto, ma di andare altrove, in una città grande e caotica, non se ne parlò neppure. In compenso, come sempre, ho continuato ad imparare, viaggiando senza muovermi. In capo a due stagioni conoscevo la Dotta, la Rossa e la Grassa come le mie tasche. Avevo camminato sotto i portici entrando in sale da tè e negozi di lusso, ero salita sulla torre degli Asinelli e ammirato dall’alto quella sterminata distesa di tetti rossi. Mi ero accomodata in un paio di osterie storiche a mangiare oggi tortellini, domani tagliatelle al ragù, accompagnati sempre dalle bollicine del Lambrusco.
Quell’uomo distinto mi assicurava che nell’elegante appartamento in cui viveva avrei trovato ciò che ogni donna avrebbe voluto. Ma né la lavatrice né gli altri elettrodomestici allora già così in voga nelle grandi città, seppero lusingarmi.
Quando ti ho parlato di nostalgia, ben più di un’ora fa, non sono stata completamente sincera.
Onestamente credevo fosse una cosa che mai avrei vissuto, eppure non è così. Forse perché non voglio farmene una ragione, perché detesto sentirmi sconfitta, sopraffatta da qualcosa di
più grande di me, che mi rende impotente, completamente inerme di fronte a ciò che non si può combattere. Non è bastata una guerra a farmi arrendere e invece proprio alla natura mi sono dovuta piegare.
Alla natura prima e alla burocrazia adesso.
Vieni, lascia che ti prenda sottobraccio e sostienimi fino al terrazzo, lì ci sono due sedie, ci accomoderemo e concluderemo fuori la nostra chiacchierata. La mia, a ben vedere.
Vedi laggiù quel profilo azzurro e frastagliato che dirada dabbasso in montirozzi e poi colline sempre più dolci, color miele, fino a scendere a valle, fino ad arrivare qui, al mare? Ecco, non
lo avevo mai visto da questa prospettiva, prima. Mai ero venuta in questo luogo, lontano da casa mia.
Dopo tutto, non sono così lontane le mie montagne da qui; nonostante i chilometri che mi separano e la vista che peggiora di giorno in giorno, riesco ancora a vederli, i Sibillini.
Eppure, non è la stessa cosa che averli a portata di mano.
Tu sei innamorata, cara? Ebbene, gli innamorati non possono vivere separati. Il mio cuore sanguina proprio perché io sono qui mentre ciò che amo è lontano. Come se non bastasse, di
ciò che amo non restano che mucchietti di polverose macerie abbandonati agli angoli dei crocevia e il tempo per vederlo ricostruito è quasi terminato, per me.
Vedo che hai preso tanti appunti, brava. Voglio sperare che non cambierai il senso delle mie parole; altrimenti tradiresti la mia memoria. Invece, per favore, metti tutto in un italiano che sia
perfetto; io ho sempre avuto qualche problema con la lingua, me lo dicevano anche i turisti, bonariamente s’intende. A volte non capivano le mie parole e, più io cercavo di trovarne altre,
più loro si confondevano e ridevano, non di me voglio sperare, ma della buffa situazione. Sì, di Italie ce ne sono tante e ognuna la puoi scoprire anche divertendoti.
E ora? mi chiedi con quegli occhi spalancati da cerbiatta. Ora mi preparo al viaggio più insolito e avventuroso che ci sia. E anche questo, come tutti i miei viaggi, non richiederà ch’io mi sposti.
Perché alla fine, cara, viaggi davvero, viaggi per finta, viaggi lontano o viaggi vicino, ma sempre a casa senti di voler tornare. Dici di voler viaggiare per capire il mondo, ma non è detto
che tutto questo peregrinare ti regali una saggezza maggiore di quella che già possiedi.
Non spaventarti, non accadrà all’istante, temo però che non resisterò a lungo. Anche a pochi metri da questo mare quieto che cerca di consolarmi con splendide albe, qui sono un pesce fuor d’acqua. Mi manca il mio mondo, l’aria frizzante, il verde intenso prima che il terreno diventi brullo e scosceso, le cime che sfidano le nuvole, la dignità silenziosa di chi come me è stato colpito, ma non molla e tira avanti, l’ombra dei monti che grava sul paese, la poetica immobilità della neve che tutto copre tranne i nostri cuori, l’odore del latte appena munto e la
tenerezza dei vitelli appena nati.
No, non ho paura, sono pronta. Paura di cosa, poi? Ho un bagaglio ricco, ricchissimo. Non sono mai stata con le mani in mano, non ho mai perso tempo, ho sempre lottato per le cose in
cui ho creduto e non ho alcun rimpianto, se non quello che sai, troppo grande per me.