Renato Cesarini

Renato Cesarini.

In viaggio dall’inizio e ancora fino ad oggi

Il viaggio quasi come una ragione di vita

Oggi, per un calciatore, viaggiare è regola, abitudine, è soprattutto necessità. Perché nell’era del calcio globale, dove ogni anno un atleta professionista può giocare un centinaio di partite tra campionato, coppe nazionali e internazionali, incontri con le varie rappresentative, le opportunità di muoversi sono sempre più numerose nell’ambito di un calendario che, complici i diritti televisivi, negli anni ha costantemente aumentato l’offerta calcistica che ormai va oltre la tradizionale domenica, coprendo tutta la settimana, a costo di sacrificare la qualità del prodotto offerto. Sembrano già lontani i tempi in cui il calciatore dell’Inter e dell’Olanda Dennis Bergkamp all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, non gradendo l’aereo per una presunta fobia su cui le leggende si sono alimentate a lungo, rinunciava alle trasferte con la sua squadra. Negli anni Ottanta però già Eraldo Pecci, giocatore tra le altre di Torino e Bologna, dopo una brutta esperienza in volo nel 1985-86 quando militava nel Napoli, aveva a sua volta rinunciato all’opzione volo, arrivando in auto fino a Minsk nel 1990 per seguire una partita tra Bielorussia ed Italia[1].
Molti anni prima invece, nella prima metà del XX secolo, i calciatori si muovevano assai meno, anche se i viaggi erano inevitabilmente ancor più di fortuna e interminabili quando si era costretti ad affrontare trasferte a chilometri di distanza: la permanenza in luoghi spesso conosciuti oltre che lontani, costituivano opportunità ghiotte per scoprire – ancorché brevemente – Paesi altrimenti difficili da visitare.
Eppure c’è chi, del viaggio, in quei tempi ha quasi fatto una ragione di vita, muovendosi non solo tra le città ma pure tra i continenti: è Renato Cesarini, giocatore simbolo del calcio italiano e argentino degli anni Trenta ma ancora oggi icona per chi rimpiange l’epoca romantica dello sport. Anche oggi i più giovani infatti conoscono la Zona Cesarini, la capacità diventata arte di segnare gol decisivi negli ultimi minuti di una partita, che prende il nome proprio dal calciatore, autore di una rete decisiva in maglia azzurra contro l’Ungheria proprio al 90’. Nel tempo la locuzione si è allargata al linguaggio extra-sportivo, entrando in politica e dando il nome a una trasmissione radiofonica Rai di successo.
Così il nome di Renato Cesarini ha continuato a viaggiare nel tempo e nello spazio, ad oltre cinquant’anni dalla sua scomparsa. Il decesso avvenne in Argentina, uno dei due Paesi che vide il talentuoso ex giocatore della Juventus dare spettacolo e suscitare l’entusiasmo degli appassionati; l’altro fu l’Italia, il Paese che invece lo vide nascere nel 1906 e da cui partì pochi mesi dopo assieme alla famiglia in cerca di fortuna.
Da Senigallia ai primi successi
Renato Cesarini nacque sulle colline di Senigallia l’11 aprile 1906 da una famiglia piuttosto povera, come tante di quei tempi difficili, in un’Italia alle prese con problemi economici e sociali. Il padre, Giovanni Cesarini, svolge il lavoro di calzolaio e dal 1905 è sposato con Annetta Manoni: la madre è casalinga e quando col marito parte per l’Argentina, il piccolo Renato ha soltanto 9 mesi.
Iniziano così i viaggi del futuro campione: in cerca di fortuna, come per tanti italiani di quei tempi dove la priorità è avere ogni sera da mangiare per tutti. Non sarà stato certamente un viaggio facile per i tre, abituati alla vita di sempre nel senigalliese. Da qui, a Genova, per prendere quella nave, il Mendoza, che dopo un viaggio avrebbe portato migliaia di persone piene di speranze e poco altro a Buenos Aires: lo stesso viaggio che pochi mesi prima aveva compiuto il Sirio, lasciando però in mare oltre cinquecento morti dopo essere naufragato nei pressi delle coste spagnole di Capo Palos. La nave era uscita dai cantieri di Glasgow nel 1883 ma quel viaggio le fu fatale. Ci furono inchieste, anche una canzone popolare di Giovanna Marini e Francesco De Gregori, oggi un museo, ma un’altra tragedia di mare ed emigrazione in quel momento si era compiuta.
Dopo 30 giorni la famiglia Cesarini arriva invece senza problemi a Buenos Aires, città di un milione di abitanti di cui oltre un terzo emigranti italiani.
Il padre, per mantenere la famiglia, continua a fare il ciabattino, nel Barrio di Palermo, il quartiere più esteso della città dove dal 1904 si innalza in Plaza Italia un enorme monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi, donato dalla comunità italiana e realizzato da Eugenio Maccagnani. Forse è un segno del destino che, proprio a breve distanza da casa, Cesarini si trovi un monumento all’Eroe dei due mondi: lo sarà anche Renato, qualche anno dopo, nei suoi ripetuti viaggi tra il Paese di nascita e quello della maturità.
Dopo aver fatto anche l’acrobata in un circo, Renato inizia a giocare nella Borgata Palermo, coi ragazzi del quartiere, segnalandosi presto per le sue capacità di centrocampista-attaccante col vizio del gol, ma anche per la sua forza fisica (172 cm per 70 kg)[2], il suo talento fantasioso e la sua indole ribelle, che traspare anche dall’aspetto, con quei riccioli biondi che sembrano non riuscire a starsene mai fermi. Già a 18 anni Cesarini entra a fare parte del calcio che conta approdando al Chacarita Juniors – la squadra del quartiere che ospita il cimitero più grande di Buenos Aires – che l’oriundo senigalliese contribuisce a portare nella massima serie argentina. Il nome di El Tano, l’italiano, comincia a fare breccia tra gli addetti ai lavori e Cesarini debutta nelle nazionali giovanili argentine, il Paese che ha lo ha adottato e i cui appassionati lo ritengono a tutti gli effetti uno di loro.
Nel 1929 ha 23 anni ed è ormai un elemento affermato, con già 2 presenze ed un gol nella Nazionale maggiore argentina: la Juventus mette gli occhi su di lui e lo acquista per una cifra allora considerevole (40.000 lire con 4.000 mensili di ingaggio)[3], anche se non si tratta di un ingaggio facile: l’acquisto a suon di soldi, sempre da parte della Juventus, di un altro campione italo-argentino, l’amico e compagno di Nazionale albiceleste, Raimundo Orsi, alimenta la polemica tra lo Stato sudamericano e quello fascista, accusato di voler costruire una Nazionale azzurra coi campioni argentini.
La questione della doppia cittadinanza comincia a farsi scottante ma per Cesarini, a differenza di Orsi nato in Italia, le polemiche sono decisamente inferiori e il calciatore per la prima volta può riavvicinarsi alla sua Senigallia, dalla quale era partito bambino oltre vent’anni prima. «All’inizio le sue perplessità non furono poche: Buenos Aires era il suo regno, il suo mondo. Ma le sfide lo avevano sempre ipnotizzato, di qualsiasi genere fossero, e quell’opportunità profumava di gloria»[4].
Era così arrivato il momento del secondo viaggio.
Il trionfale ritorno in Italia e la nascita della Zona
Dal 27 gennaio al 13 febbraio 1930 la permanenza sul transatlantico Duilio è decisamente meno sofferta che tanti anni prima: «champagne, orchestra e ragazze ammiccanti»[5]. «Quando mise piede sul Ponte dei Mille, Cesarini sembrava un divo del cinema»[6]. Quindi il viaggio continua da Genova verso Torino, dove conosce i vertici della società, il presidente Edoardo Agnelli e il vice Giovanni Mazzonis, con il quale tantissime sarebbero state le discussioni: troppo ribelle, eccentrico, voglioso di vita e divertimento Cesarini per andare d’accordo con il conservatore e austero stile della società bianconera, ma anche troppo capace di regalare gioia in campo – fin dal suo debutto contro il Napoli il 23 febbraio 1930 – per evitare che quelle polemiche non si esaurissero in niente di più che salate multe. Troppe forte, in definitiva, Cesarini, perché il club di Torino pensasse davvero di rinunciare al giocatore senigalliese. Il 25 gennaio 1931 il calciatore è a Bologna, allo stadio del Littoriale, ora Dall’Ara: gioca col numero 8 nella Nazionale italiana del commissario tecnico Vittorio Pozzo, assieme a, nell’ordine, Combi, Rosetta, Caligaris, Ferraris, Bernardini, Pitto, Cattaneo, Meazza, Ferrari ed Orsi. È la sua prima presenza nella Nazionale azzurra ed arriva subito il gol: è quello che 4-0, che contribuisce al netto 5-0 contro la malcapitata Francia. L’oriundo diventa subito un punto fisso della Nazionale, grazie alla quale viaggia in Italia e Europa: sempre nel 1931 c’è nel successo 2-0 di Oporto col Portogallo, nell’1-1 di Berna contro la Svizzera (dove pareggia nei “suoi” minuti), nello 0-0 di Bilbao con la Spagna, nel 3-0 contro la Scozia a Roma. Poi è la volta della Coppa Internazionale, che lo vede in campo tre volte tra il 1931 e il 1932: è presente nel 2-2, ancora a Roma, contro la Cecoslovacchia e soprattutto nel 3-2 contro l’Ungheria del 13 dicembre 1931, allo stadio Filadelfia di Torino.
È qui che nasce la leggenda della Zona Cesarini, una fortunata espressione che conia il giornalista Eugenio Danese. «La Stampa» celebra il successo degli azzurri di Pozzo, grazie alla rete di Renato al 90’, assegnandole in prima pagina uno spazio maggiore della visita del Mahatma Gandhi[7]. Dopo il gol l’oriundo è «portato in trionfo, issato sulle spalle di Monzeglio. La folla pare pazza di gioia e si assiste a uno spettacolo indimenticabile»[8]; nel post partita anche gli avversari rendono merito agli avanti azzurri, «impareggiabili per gioco d’insieme e individuale»[9]. Cesarini giocherà l’ultima partita in Nazionale (in totale 11, con 3 reti) l’11 febbraio 1934, a nemmeno 28 anni, quando a Torino subirà la sua unica sconfitta contro l’Austria: 2-4. Gli uomini di Pozzo, poco dopo, vinceranno in casa il primo titolo mondiale per il nostro Paese, replicando poi nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino e nel 1938 al Mondiale in Francia, ma Cesarini non farà parte di nessuna delle tre rassegne, chiuso dalla grande concorrenza nel reparto avanzato ma forse ancor più dalla sua indole troppo libertina per le rigide norme comportamentali del tecnico e dei tempi: non a caso, non fu mai un’icona fascista.
Nell’estate 1932 Cesarini torna per la prima volta a Senigallia a far visita ai suoi parenti, venendo accolto dall’entusiasmo dei concittadini e non resistendo alla tentazione di giocare una partita con la locale Vigor, contribuendo al successo nel sentito derby contro l’Anconitana, risolto da un gol – in Zona Cesarini – di Vittorio Joppolo[10].
Alla Juventus gioca fino al 1935, vincendo per cinque volte di fila il campionato con una delle migliori formazioni bianconere della storia: complessivamente totalizza 128 presenze in serie A con 46 reti. La sua stagione migliore è la prima, in cui realizza 10 gol in 16 partite, ma la sua media realizzativa rimane alta in tutte le sei annate (5 in 25 partite in quella finale, 1934-35).
Perché andarsene allora? Probabilmente lo spirito un po’ zingaro di Cesarini, la sua continua voglia di nuove sfide, la nostalgia dell’Argentina – terra di musica, tango e suoni, amori mai celati – lo spingono di nuovo in Sud America: prima, per un breve periodo, è di nuovo al Chacarita Juniors, poi al grande River Plate, club di Buenos Aires tra i più importanti di tutto il continente per prestigio, risorse economiche ed organizzazione, dalla tifoseria calda e appassionata. Ancora oggi quello cittadino col Boca Juniors è il più sentito e turbolento tra i tanti derby sparsi in giro per il mondo[11].
Cesarini diventa allenatore, ma non smette di vincere
Col suo ennesimo viaggio, Renato era ancora una volta tornato a casa. Al River vince l’ennesimo titolo, poi sorprende ancora e a 31 anni annuncia il ritiro dall’attività, diventando responsabile unico della scuola calcio del club.
Convinto è l’investimento societario sul tecnico perché «a Buenos Aires, Renato Cesarini era diventato una specie d’istituzione, le sue provocazioni facevano sempre discutere ma anche i suoi più acerrimi detrattori erano costretti ad ammettere che quell’uomo non aveva mai due facce e che era sempre coerente con le sue idee, giuste o sbagliate che fossero»[12]. Successivamente passa ad allenare la prima squadra, che tra gli anni Trenta e Quaranta è ricordata come La Maquina, una delle più forti compagini sudamericane di tutti i tempi. In quegli anni Cesarini trascorre anche un breve periodo a Montevideo ed Atlantida, in viaggio di nozze: si sposa infatti con Yuki Namba, attrice argentina di quasi vent’anni più giovane, scomparsa nel 2006.
Torino però, non si era dimenticata di, né lui del capoluogo piemontese e della sua Juventus. Così nel 1946 è di nuovo in bianconero, stavolta nel tentativo di risollevare le sorti del club, che dall’ultimo scudetto vinto con lui in campo, non è più riuscito a imporsi. Cesarini guida la Juve al secondo posto in serie A nel torneo 1946-47, dietro l’inarrivabile Torino, nel pieno del periodo degli Invincibili; lancia, inoltre, un giovanissimo Giampiero Boniperti, che ripaga la fiducia segnando 5 reti in 6 partite all’età di 18 anni. L’anno dopo, questi fa anche meglio, vincendo la classifica marcatori con 27 reti, ma per la Juve è ancora secondo posto dietro al solito Torino.
Dopo due stagioni, una nuova esperienza è terminata e Cesarini, ora quarantaduenne, è pronto a iniziarne una nuova. Per l’ennesima volta, opta per andarsene lontano, o forse vicino, vicinissimo, alle sue origini argentine. «In Argentina lo attendevano gli altri suoi amici del cuore, una splendida casa del centro della città [Buenos Aires] e, naturalmente, il tango, vecchio e intramontabile compagno. […] Il River Plate riaccolse a braccia aperte il suo maestro e don Renato decise di dedicarsi totalmente alla scuola di calcio»[13].
In quel periodo in Sud America, si dedica pure a un’altra sua grande passione sportiva, il ciclismo: nel 1953 organizza il giro ciclistico argentino, al quale partecipano molti campioni dell’epoca, tra cui il belga Rik Van Steenbergen, che si aggiudica la corsa[14].
Resta il calcio però la sua occupazione principale: per qualche anno rimane in Argentina, ma quando ha di nuovo l’occasione di tornare in Italia, nonostante i 51 anni non se la lascia sfuggire. D’altronde, la nostalgia per il suo Paese di nascita, già nei mesi precedenti, non era sfuggita nemmeno ai giornalisti che lo avevano interpellato in una delle sue numerose animate interviste[15]. «La sua vecchia anima nomade ebbe il sopravvento. [] don Renato chiamò la Juventus ed accettò la proposta. “Fu prima di quella partenza”, racconta Yuki, “che la nostra storia terminò definitivamente. […] Quella volta non lo seguii e le nostre strade si separarono”»[16].
A chiamarlo infatti era stato infatti nel 1957 il presidente della Juventus, Umberto Agnelli: certo la decisione del club torinese non era dispiaciuta ad Omar Sivori, che proprio Cesarini aveva scovato in Argentina e lanciato nel River, da cui era approdato alla Juventus. Ma stavolta l’impegno non sarebbe stato con la prima squadra e con Torino, ma coi giovani della tranquilla e periferica Pordenone, dove avrebbe aperto una scuola di calcio della Juve[17]. «La tranquilla Pordenone accolse con simpatia e rispetto l’arrivo di quello strano personaggio così pieno di carisma»[18]. Un’esperienza positiva, ma che sarebbe durata soltanto un paio di annate.
Nel 1959 infatti, un nuovo viaggio attendeva Cesarini: un ritorno, l’ennesimo della sua vita. Ancora una volta l’allenatore di Senigallia ritrova i colori bianconeri (e Omar Sivori, una sorta di figlio adottivo), diventandone il nuovo allenatore nel marzo 1959[19]. «Don Renato si ritrovò a respirare l’aria della sua adorata Torino in mezzo a quel clima di ottimismo. La città era cresciuta e ora aveva un milione di abitanti»[20]. Con l’arrivo a stagione in corso di Cesarini, la Juve, trascinata dai gol del gigante buono gallese John Charles e del solito Sivori (34 in due), chiude al quarto posto; nella prima stagione integrale con El Tano nel ruolo di direttore tecnico e Carlo Parola in quello di allenatore il campionato 1959-60 diventa invece una cavalcata trionfale. La squadra è indubbiamente molto forte: portieri come Mattrel e Vavassori, difensori quali Castano e Cervato, centrocampisti come Leoncini ed Emoli, ma soprattutto un attacco atomico forte di Boniperti, Nicolè, Charles, Sivori, Stacchini e Stivanello, rendono l’undici bianconero una corazzata in grado di festeggiare lo scudetto con tre giornate d’anticipo. Sivori, 163 centimetri e 59 chilogrammi di classe pura, giocando per il suo maestro, segna 28 gol, vince la classifica marcatori e l’anno dopo farà altrettanto col Pallone d’oro, primo italiano a riuscirci: dopo aver vinto la Coppa America con l’Argentina l’oriundo argentino ripeterà infatti il percorso del suo allenatore, debuttando nella Nazionale italiana nel 1961 e disputando poi la sfortunata rassegna mondiale in Cile nel 1962.
Quel carattere estremamente curioso e dinamico, capace di sorprendere anche i giornalisti che si trovano ad intervistarlo, può però anche essere difficile da gestire: Cesarini crede in un calcio offensivo coraggioso per l’epoca[21], ma soprattutto non ama mezze misure, dice sempre quello che pensa e con il curriculum che può vantare da calciatore e allenatore, la sua competenza e il suo carisma, può indubbiamente permetterselo: la terza stagione sulla panchina juventina non ha però l’avvio auspicato ed alla fine del 1960 si dimette da direttore tecnico[22]. Con Parola e il nuovo direttore Gunnar Gren la Juve vince un nuovo scudetto e lo fa, per un atroce scherzo del destino, proprio contro Cesarini, che dopo aver lasciato Torino, fedele alla sua indole girovaga accetta di prendere il treno per Napoli, chiamato dal patron Achille Lauro nel disperato tentativo di evitare ai partenopei la serie B[23]. Nel solito ruolo di direttore tecnico, Cesarini affianca Amadeo Amadei, ex bomber della Nazionale, di Roma, Inter e dello stesso Napoli, ma la sua presenza dura poco e non riesce a risollevare la squadra: anzi, sono proprio la Juventus e Sivori, con una tripletta, a condannarlo alla retrocessione con un 4-0 che non ammette repliche.
Anche in Campania però lascia il segno e un episodio la dice lunga su un personaggio davvero mai banale.
Sfogandosi con il medico sociale Athos Zontini, Cesarini descrive la situazione societaria: «Caro dottore», dice Cesarini a Zontini. «Come si fa a discutere di tecnica con chi non ha nessuna competenza? Qui tutti si danno arie da maestri ma allora perché mi hanno chiamato?». […] Cesarini e Amadei controllano anche l'alimentazione della squadra, ma Lauro ha da ridire. Entra in albergo e nota che i calciatori stanno mangiando minestra, così esclama, rivolto a Cesarini: «Non si può vincere mangiando questa roba. Tu devi dargli maccheroni e vedrai come correranno domenica». Cesarini cerca di replicare ma Lauro chiede un parere al suo medico personale che, intimorito dalla figura del Comandante, conferma tutto. A questo punto Lauro asserisce che Cesarini non può saperne più di un medico, di uno che era stato all'università, in materia di alimentazione. Cesarini sdrammatizza dicendo: «Ho passato una vita intera all'Università, ci abitavo di fronte». L'incidente viene evitato, i giocatori mangiano maccheroni ma qualcosa suggerisce a Cesarini che la situazione era insanabile[24].
L’ennesimo lungo viaggio verso una nuova avventura
Alla fine della sofferta annata calcistica 1960-61, Cesarini, nonostante due esperienze non positive nell’arco di pochi mesi, ha comunque diverse opportunità davanti: ha ormai 55 anni, è una personalità stimata, apprezzata, magari anche discussa e temuta, ma di cui certo nessuno può discutere l’esperienza, la capacità, le competenze maturate in anni e anni di calcio: partendo dalla strada del Barrio Palermo fino a Napoli, passando però per Pordenone e più volte per Buenos Aires e Torino. Cesarini appare un vecchio guerriero, il suo volto è sempre più scavato, ma è un uomo ancora di grande intuizioni e lucidità: e, soprattutto, è tutt’altro che stanco.
Così ancora una volta fa la valigia e se ne va verso una nuova avventura, sorprendendo di nuovo tutti. La sua nuova destinazione è infatti il lontano Messico, paese povero ma ricco di entusiasmo per il football: di voglia di emergere ne ha tanta anche il Pumas Unam, club fondato appena nel 1954 neopromosso in massima divisione nazionale, con uno stadio da oltre 70.000 posti inaugurato da pochi anni. Una bella esperienza per entrambi: da un lato Cesarini ha l’opportunità di conoscere un calcio e un Paese diverso; dall’altro i Pumas possono giovarsi di un maestro di calcio il cui contributo è decisivo per la crescita di una società così giovane.
Come ricorda Sivori, costantemente rimasto in contatto col suo mentore, «Ogni sei mesi doveva fare il suo passaggio in Italia. Veniva a Torino, stava qualche giorno, incontrava gli amici e si dedicava a rifornire il suo guardaroba. Comprava di tutto, scarpe, vestiti, camicie e altro ancora. Poi se ne tornava in Messico dai suoi Puma»[25].
Dopo l’esperienza messicana, Don Renato ritrova l’amata Buenos Aires, per allenare di nuovo l’altrettanto amato River Plate. Sotto la presidenza di Antonio Liberti – figlio di immigrati genovesi presidente del club già nel 1933, un vincente che ha saputo trasferire nello sport le sue capacità imprenditoriali con idee innovative, come la costruzione dello stadio Monumental – Cesarini conquista il terzo posto nel 1964, schierando tra gli altri Jorge Solari, centrocampista classe 1941, componente dell’Argentina ai Mondiali del 1966 in Inghilterra e zio di Santiago, giocatore del Real Madrid dal 2000 al 2005 e dell’Inter dal 2005 al 2008. Nel 1965 il River Plate sale al secondo posto, trascinato dai gol (16) di Oscar Mas, che proprio in quel periodo, men che ventenne, debutta in Nazionale, con cui fino al 1972 collezionerà ben 37 presenze e 10 reti[26]. Il secondo posto viene ripetuto nel 1966, poi l’esperienza di Cesarini si interrompe ed in panchina Liberti – che per un breve periodo nel 1957 fu anche presidente del Torino – sceglie Juan Carlos Lorenzo, altro giramondo di origine italiana: nato a Buenos Aires ma con passaporto italiano, Lorenzo aveva giocato come Cesarini nel Chacarita, in Italia (Sampdoria), Francia e Spagna, prima di intraprendere la carriera di allenatore ripetutamente tra Spagna, Argentina ed Italia, in cui detiene ancora oggi il record di presenze sulla panchina della Lazio (184, tra il 1962 e il 1964, il 1968 e il 1971 e nel 1984-85).
Il risultato più importante il tecnico senigalliese lo coglie però nella prestigiosa Coppa Libertadores, la Coppa dei Campioni dell’America Latina. Nel 1966, superata agevolmente la prima fase assieme ai cugini-rivali del Boca Juniors, il River si aggiudica anche il girone di semifinale confermando il miglior attacco della manifestazione già evidenziato nel primo turno. Nella finale contro gli uruguaiani del Penarol, sotto 1-2 davanti ai 60.000 spettatori dello stadio Monumental, il River ribalta il risultato vincendo per 3-2 e pareggiando così il ko dell’andata a Montevideo (2-0). Nella terza e decisiva partita allo stadio Nacional di Montevideo, il 20 maggio 1966 il River si trova avanti 2-0 nel primo tempo per le reti di Onega e Solari, ma nella ripresa subisce la rimonta e poi cede 4-2 nei tempi supplementari[27]. Cesarini si prende anche qualche critica per non aver avuto un atteggiamento più difensivo nel secondo tempo, ma è una richiesta probabilmente irricevibile per un uomo che ha preso sempre non soltanto lo sport, ma anche la vita, all’attacco, con coraggio e senza paura. Il risultato è comunque storico perché per il River si tratta della prima finale in assoluto e vale le attenzioni della Federazione, che sceglie qualche mese dopo Cesarini come nuovo commissario tecnico della Nazionale: un’esperienza breve, per pochi mesi e partite tra il 1967 e il 1968, ma che corona una carriera irripetibile in campo e in panchina.
Successivamente Cesarini rimane a Buenos Aires per allenare brevemente l’Huracan, nell’ennesima avventura di una vita vissuta senza pause.
L’ultimo viaggio, verso il mito
Purtroppo l’avventura all’Huracan sarà l’ultima: all’inizio del 1969, durante un meritato periodo di riposo nella sua tenuta di General Belgrano, a 150 chilometri dalla capitale, Il Maestro viene colpito da emorragia cerebrale: ripresosi, inizia la convalescenza nella casa di un amico e dirigente del River – club con cui mai ha interrotto i rapporti – ma a marzo viene colpito da trombosi, morendo nella capitale il 24 marzo 1969, poco prima di compiere 63 anni[28].
L’ultimo viaggio, Cesarini, il più struggente per i tanti che in vita gli avevano voluto bene, lo compie verso il cimitero di Chacarita, in quella parte di città che aveva contribuito a far sognare tanti anni prima, da giovanissimo, facendo faville con i Juniors; tuttavia anche a Torino, dove viene officiato un funerale senza salma alla presenza della famiglia Agnelli e di Boniperti, «l’anima di Cesarini la si poteva quasi toccare»[29].
Ma a ben vedere, Cesarini - El Tano, Il Maestro, Don Renato, La Bibbia del Football –continua ancora oggi a viaggiare grazie alla sua Zona, che per la Treccani è «adoperata spesso in senso estensivo e figurato, come equivalente della locuzione “appena in tempo”»[30].
Ma che, in realtà, racconta qualcosa di molto più grande, appassionante e profondo.


[1] Si veda M. Salvini, Paura di volare, in http://chepalle.gazzetta.it/2012/11/08/paura-di-volare/, 8 novembre 2012.

[2] L. Pagliari, Zona Cesarini: il calcio, la vita, Bompiani, Milano 2006, p. 23.

[3] Ibidem, p. 34

[4] Ibidem, p. 33.

[5] Ibidem, p. 37.

[6] Ibidem.

[7] V. Pozzo, I calciatori azzurri battono gli ungheresi per 3 a 2, in «La Stampa», 14 dicembre 1931, p. 1.

[8] L. Cavallero, La pressione azzurra, ibidem, p. 2.

[9] I commenti ungheresi, ibidem.

[10] Pagliari, Zona Cesarini, cit., pp. 65-66.

Si vedano anche A. Pongetti, Calcio: 1921-2017, la lunga storia della Vigor Senigallia finisce qui, in www.senigallianotizie.it, 5 luglio 2017; Id., 107 anni fa nasceva a Senigallia Renato Cesarini, ibidem, 11 aprile 2013; Id., 50 anni dopo il mito Renato Cesarini – El Tano di Senigallia – e la Zona sono ancora con noi, ibidem, 15 marzo 2019.

[11] Della rivalità tra i due club farà le spese lo stesso Cesarini molti anni dopo.

Alla fine del 1965, dopo una polemica col presidente del Boca Alberto Armando e successive dichiarazioni poco lusinghiere nei confronti dei peronisti, Cesarini, in quel momento allenatore del River, subirà un attentato dinamitardo alla sua abitazione di Buenos Aires e la richiesta di espulsione dal Paese da parte del partito giustizialista peronista: si vedano G.G. Foà. Renato Cesarini bersaglio di una vendetta politica? e Id., È stata chiesta l’espulsione di Cesarini dall’Argentina, in «Corriere della Sera», rispettivamente del 23 dicembre 1965, p. 21 e del 24 dicembre 1965, p. 17.

[12] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 100.

[13] Ibidem, p. 117.

[14] Ibidem, p. 129.

[15] N. Oppio, Ecco il signore della “zona Cesarini,,, «in Corriere della Sera», 19-20 settembre 1956, p. 7.

Cesarini era perfettamente consapevole di essere destinato alla gloria eterna per il gol all’Ungheria da oltre vent’anni prima. Tra i tanti ricordi infatti «il più bello è quello che mi creò una fama incancellabile: il gol segnato in zona Cesarini»; «Vorrei tornare alla mia Senigallia, quieto, ma come posso stare senza calcio?», aveva aggiunto, senza convincere però il giornalista, che chiuse l’articolo con un eloquente «tornerà in Italia».
Ancora nel 1965 l’allenatore, a Bologna per una amichevole tra il suo River e la formazione emiliana, vincitrice per 3-2, avrebbe affermato: «tornare in Italia, anche per un giorno solo, è la felicità. […] In Italia ci torno sempre di corsa»: si veda Id., ibidem, 1° settembre 1965, p. 14.

[16] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 149.

[17] N. Oppio, Il favoloso Cesarini è tornato per insegnare il calcio, in «Corriere della Sera», 1-2 ottobre 1958, p. 7. Qui si sottolinea: «i ragazzi gli vogliono bene, lo ammirano come maestro e come ex calciatore di fama».

[18] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 149.

[19] Si veda Renato Cesarini direttore tecnico, in «Corriere della Sera», 17 marzo 1959, p. 11.

[20] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 151.

[21] Si veda A. T., Cesarini: gioco sempre per vincere, in «Corriere della Sera», 24-25 marzo 1960, p. 7.

[22] Si veda L. Pilogallo, Cesarini se ne andrà alla fine del campionato?, ibidem, 22 dicembre 1959, p. 15. Già alcuni mesi prima del suo addio alla Juventus, il giornalista evidenziava: «Il calcio italiano ha tanto bisogno di uomini come lui».

[23] A. T., La sorpresa di Cesarini, ibidem, 13-14 gennaio 1961, p. 7.

[24] D. Schiavon, «Che mangino maccheroni»: quando Lauro dettava la dieta ai calciatori, in www.napolitoday.it, 24 ottobre 2019.

[25] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 184.

[26] Si veda pure Cesarini torna al River, in «Corriere della Sera», 7-8 gennaio 1965, p. 5.

[27] Si veda Il Penarol campione americano, ibidem, 21-22 maggio 1966, p. 11.

[28] Pagliari, Zona Cesarini, cit., pp. 193-195.

La notizia ha ampio risalto sulla stampa italiana. Si vedano C. Moriondo, È morto Cesarini, in «La Stampa», 25-26 marzo 1969, p. 11 e D. Ascoli, È morto Cesarini, romantico eroe del calcio, ibidem, 26 marzo 1969, p. 16; G. Boccacini, Una carriera favolosa, ibidem. «La Stampa» lo ricorda come un «fuoriclasse, duro e tenace».
Inoltre È morto Cesarini, in «Corriere della Sera», 26 marzo 1969, p. 20; A. Frossi, La sua «zona» cominciava all’85’, ibidem. Per il quotidiano milanese se ne va «uno dei più estrosi campioni del calcio d’anteguerra», un «giocoliere in campo e viveur fuori». Si veda anche L. Grossi, Cesarini, eroe dell’ultimo minuto, in «Corrriere della Sera», 7 febbraio 2007, p. 16, sullo spettacolo teatrale – omonimo del libro di Luca Pagliari qui più volte citato – prodotto dal Teatro Blu di Milano, con testo e regia di Valeria Ferrario, Gualtiero Scola e Andrea Perrone.

[29] Pagliari, Zona Cesarini, cit., p. 196.

[30] Si veda Zona, in www.treccani.it.