L'ignoto

di: Lidia Popolano

Notte sul terzo pianeta
Non mi rimane altro, non ci rimane altro che trovare un riparo per la notte. Non un riparo dalla luce però, un riparo dal buio, da questo buio che smarrisce.
Raduno gli uomini, siamo rimasti in 7 inviati dalla MEU a supportare il team Delta.
Strisciamo lungo le macerie fumanti di un palazzo e ci tuffiamo quasi alla cieca in una crepa tra due masse contorte che dovevano essere le porte rotanti di un albergo.
Eccoci, Clark, Lewis, Robinson, poi White, Lopez e Lee. Siamo tutti se si eccettua McKensey.
Mi distraggo, che non vedano la commozione a ripensare a quel fottuto imbecille! Mi abbasso per scansare la moltitudine di cavi che penzolano da quella che doveva essere la hall dell'albergo. Quasi striscio, i miei occhi abituati all'oscurità. Ma qui, sono sollevato: non è il buio di là fuori. è solo l'oscurità di un palazzo evacuato.
White mi fa cenno che le scale sono sulla destra e, con i gesti della mano sinistra, mostro che la nostra meta non sono i piani superiori, ma il piano sotterraneo. Uno alla volta mi vengono dietro, il caporale White per primo e gli altri di seguito.
Sono fresco di nomina, sergente di squadra, così fresco che il mio gallone con i baffi rossi splende sul contro-spallino, malgrado la penombra. La gioia della nomina mi fa ritornare in mente Betty, la mia Betty, ma devo allontanarne il pensiero. Mi rende più vulnerabile…
Siamo arrivati in uno spazio piuttosto stretto, forse un corridoio di servizio. Non mi sento sicuro per la mia squadra. Decido di provare a scendere di un altro livello. Faccio un gesto a White, perché capisca che deve rimanere con due uomini, mentre scendo giù con gli altri. Mi azzardo a illuminare la scena per vedere se li lascio in sicurezza e per trovare l'accesso alle scale. Libero! Imbocchiamo le scale che scendono adesso a spirale. Un'incerta luminosità proviene dalle finestre a bocca di lupo che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Davanti a noi, il buio più totale.
Claustrofobia
Agire senza pensare... è questo che mi occorre in questo momento? Non lo so ma ho la sensazione, tornando indietro, che la pesantezza del cunicolo sulla mia testa, su tutti i miei sensi, si alleggerisca. Sbaglio o l'ampiezza del tunnel si sta allargando?
Procedo lentamente, sempre con le braccia allargate, sfiorando le pareti umide.
Di tanto in tanto tocco qualcosa di più viscido. A volte qualcos'altro scorre rapidamente sulle nocche e fugge via. Non oso ipotizzare di cosa si tratti, ho un nodo alla gola che m'impedisce di occuparmene.
Continuo a procedere lentamente, molto lentamente, fin quando la percezione del tempo mi assale in tutta la sua malvagia realtà: il tempo passa, morirò! O forse questa percezione è irreale... il tempo è fermo. No, questo è un incubo e presto mi sveglierò, ma a cosa serve illudersi, devo muovermi più in fretta, più in fretta, sì.
Ora comincio ad accelerare. Il tunnel non sembra avere modifiche rilevanti. A volte piega lievemente dalla direttrice principale, a volte sembra tornare sui suoi passi in un largo giro. La monotonia accresce la mia claustrofobia e la schiena curva comincia a dolermi insopportabilmente. Decido di riposare. Mi adagio in terra. Ho fatto bene, ma, la semplice operazione sembra costarmi una fatica enorme e un dolore supplementare. Riposo qualche istante, mi amministro il tempo e poi mi rialzo.
Ora sembro avere acquisito un po' di scioltezza e di fiducia, posso accelerare ancora. Accelero ma vedo improvvisamente una curva a gomito, quella che sembra una curva a gomito. Rallento, e prendo consapevolezza del mio respiro ansante. La scena è rischiarata da una flebile luce, non si vede da dove provenga. Sul muro di fronte, inchiodata, una mano umana, distaccata dal braccio. Tra le dita un foglio, fresco di scrittura, dice: "Fine del viaggio ... questo ramo non conduce alla tua libertà ... non puoi farcela!”
Sono costretta a tornare indietro e alla svelta anche. Sento un rombo che fa tremare tutte le pareti del cunicolo intorno a me, indescrivibile, come un battito profondo della terra. Mi giro come un topo in gabbia, non senza qualche fatica, e cerco di capire da dove provenga la flebile luce che ho visto in precedenza. In mente, negli occhi, ancora la terribile immagine della mano mozza di recente, i particolari orribili ancora in vista. La luce proviene da alcune fessure in alto. Come se vi fosse un altro piano là sopra. Ma dove? E come salirvi? Ma poi, alla fine, dove mi trovo?
Rigirata, il rombo terribile nelle orecchie, comincio a ripercorrere l'ultimo ramo del tunnel con lo sguardo rivolto verso l'alto. Devo rintracciare a tutti i costi l'origine della luce e l'ingresso al livello superiore. Potrebbe essere la mia unica salvezza.
Arranco e inciampo più di una volta. Lo sguardo in alto non agevola il mio procedere. D'un tratto mi rendo conto che, da alcune fessure laterali, sta penetrando in rivoli vorticosi dell'acqua o qualcosa di analogo. A parte il fetore, mi rendo conto che l'acqua ai miei piedi si alza rapidamente. Un ramo delle fogne. Ecco dove mi trovo. Ma come fare a trovare l'uscita? Ora devo sbrigarmi a raggiungere il livello superiore. Ma nelle fogne ci sono vari livelli? La cosa non mi convince ma non ho alternative a questo punto.
Bingo! In un anfratto si vede una lama di luce verticale che non avevo visto all'andata. Ne sfioro il margine. Rientra all'indietro. E' arrotondato. Si allarga. C'è una specie di scaletta rudimentale scavata nella roccia. M'infilo. Ci passo, ma solo di
Profilo.
Se non fossi così piccola... devo anche abbassare la testa e infilarmi in una
fessura così stretta che mi graffio irrimediabilmente le spalle e la schiena. Dio, devo spingere con forza. Devo vincere l'acuto dolore e il terrore di rimanere incastrata senza riuscire a uscire da entrambe le parti... al cervello…
Mi avventuro piegata quasi in due: ho le braccia, la schiena e le spalle completamente ricoperti di graffi sanguinanti, la schiena anchilosata per il percorso nel cunicolo, il cuore ancora in fibrillazione per la paura di quell'acqua che saliva, che saliva, oddio! Un brivido mi percorre lungo tutta la schiena, mi è ritornata alla mente l'immagine della mano mozza. Devo sbrigarmi, non so da quante ore sono qui e non ho neanche individuato la fonte del pericolo, l'assassino o gli assassini che mi perseguitano.
Mi guardo intorno, sembra la condotta dell'aria di un edificio ma ampia e pulita.
Decido di affrettare l'esplorazione e mi rendo conto, uscendo da un portello sulla superficie laterale, che la conduttura si trova in un più ampio spazio verticale, di cui non riesco a vedere la fine né in alto, né in basso, come fosse il vano di un ascensore, ma per le tubature e i cavi di servizio. Mi dà le vertigini ma resisto e provo a guardare a sinistra e a destra dell'apertura per capire se c'è la possibilità di superare quella struttura e sfuggire al mostro assassino. E sì, un po' distante, ma secondo me raggiungibile, vedo una scaletta a pioli di ferro e intuisco che finisce in un'altra tubatura a un livello superiore oppure in un altro piano. Oddio e se fosse un altro tunnel?
Mi assale la nausea e, finalmente, dopo tutte quelle emozioni mi libero lo stomaco del residuo di un pasto che non so più quando devo aver fatto. Non mangio e non dormo da ore! Non posso scoraggiarmi proprio adesso. Devo proseguire. Devo esplorare quel tratto. Non faccio in tempo a provare a sporgermi dal portello per provare a raggiungere la scala a pioli, che qualcosa mi afferra una gamba e prova a strattonarmi in dentro.
Resisto con tutte le mie forze. Mi sorprendo a gridare e «puttana! Mi resiste!» sento ringhiare da dentro. E un'altra voce, più sottile, agghiacciante. «Tagliale la gamba ih ih, tieni il machete; afferralo, coglione!»
Quiete
Era stato giusto poche settimane dopo gli istanti d’intensa comunicazione con se stesso, che, un giorno, quel giorno, si ritrovò a rivivere i momenti di quiete e felicità in maniera più profonda. Proprio tutt’intorno a lui, sulla sua pelle, insieme all’acqua del torrente che invadeva lentamente l’abitacolo della sua macchina.
Niente più metafore, non più mare, non neve, non campi di grano. Erano sfilati davanti a lui, passando attraverso il suo corpo, gli istanti del risveglio nella sua cameretta, da bambino, quando le zone di luce ed ombra proiettate sul soffitto dagli alberi mossi dal vento nel giardino, inondandolo di emozioni, erano figure mitiche, erano vive. Il bacio scambiato con la compagna di asilo, Maria, dietro la porta dell’auletta, al ritorno dalla mensa, sentiva ancora la morbidezza delle sue labbra di bambina e la commozione per quello che lui aveva sentito come un regalo, invaderlo fino alle lacrime. E poi il taglio del traguardo nella corsa campestre, quando aveva undici anni, i sottili capelli biondi al vento, tutti gli snelli muscoli delle braccia e delle gambe tesi in avanti per rubare le frazioni di secondo al ragazzo robusto e allenato che correva accanto a lui. Il sapore del primo piatto, cucinato interamente da lui: era un risotto ai piselli, ne sentiva ancora la dolcezza erbosa sulla lingua mentre li premeva contro il palato, mentre i denti erano invasi dal l succo morbido del riso tiepido e burroso.
Ricordava il respiro affannato di Carla e il suo infinito sorriso, mentre suonava ritmicamente insieme a lei le dolci note dell’universo, quella prima volta nel capanno sulla spiaggia.
Ora non riusciva più a fermarli: i momenti felici, tornavano alla sua memoria, alla sua consapevolezza, uno dopo l’altro, lentamente, ma senza soluzione di continuità. Li sentiva nella mente, nei polmoni, nelle membra, nel sorriso, alla radice dei capelli, sulle labbra, sulla punta delle dita, sul ventre, sotto l’ombelico, nel cuore. Dovunque arrivassero, invadevano  dolcemente mente e corpo, inarrestabili, innumerevoli. Poi vide se stesso muoversi rapidamente incontro a loro, verso la direzione da cui provenivano, era luminosa, molto luminosa, ne era attratto. Una sorta di ingordigia, di impazienza, lo animava, ma non una frenesia, sapeva bene che quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe rivissuti, ne era consapevole, doveva solo assaporarli come non aveva saputo fare la prima volta. La luce aumentava, gradatamente, senza abbagliarlo.
Era una strana luce, dai contorni sfumati come una musica armoniosa e accompagnava quei brevi momenti diventando sempre più intensa, ma non assordante. Eccola, ancora alcuni ricordi, da assaporare: l’addio alla madre, mano nella mano, sorriso nel sorriso, fronte sulla fronte; il viso intenso di Carla nel giorno del loro venticinquesimo anniversario, con quegli occhi luminosi segnati dalle preoccupazioni, ancora bella e trepidante per lui; l’odore della pittura fresca il giorno in cui avevano deciso, spostati tutti i mobili al centro delle stanze, che era venuta l’ora di rinfrescare i muri della loro casa. Eccola, ecco la luce sempre più vicina. Eccomi, ora sono pronto!