Sulla via dei Patriarchi

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Dopo il Pellegrinaggio in Terra Santa del 2011, un’esperienza fantastica e coinvolgente, lei prese parte ad un secondo Pellegrinaggio sempre organizzato dallo stesso Prete, denominato “Terra Santa a piedi”.
I venti partecipanti si riunirono una domenica pomeriggio nella sala adiacente la Chiesa e il Don spiegò i particolari di quel viaggio organizzato per il mese di aprile.
Il viaggio: Nazareth, Betlemme, Gerusalemme e la regione della Samaria attraversato i paesi di Jenin, Zababde, Sebaste, Nablus proseguendo sulla via dei Patriarchi per Awarta, e ancora per Agraba arrivando a Duma, Taybe, il Wady Ojia (Deserto di Giuda), Gerico, il Mar Morto; l’itinerario si snodava per un centinaio di chilometri lungo le strade della zona montuosa della Samaria fino al deserto di Giuda verso Gerico.
Territori poco frequentati dai pellegrini tradizionali, dove sono presenti numerose comunità cristiane.
Al termine dell’incontro si diedero appuntamento all’aeroporto.
Volo aereo Genova-Roma, Roma-Tel Aviv.
A Tel Aviv un mini-bus con autista li attendeva per accompagnarli lungo tutto il percorso.
Il Don, accreditato come guida in Terra Santa, era la loro guida ma non era sufficiente per ottenere i permessi per entrare in Samaria.
Per entrare in quel territorio necessitava avere delle guide locali, ne ebbero ben tre.
A Nazareth alloggiarono una notte in un ostello presso le Suore Francesi: due cameroni, uno per le donne l’altro per gli uomini.
Fatta colazione partirono a piedi e il pranzo al sacco per raggiungere la cima del Monte Tabor; camminarono tutto il giorno arrivando alla meta fissata nel tardo pomeriggio e lì pernottarono.
Il giorno seguente, con il pulmino, partirono all’alba per Arbel, riserva naturale protetta, discesero a piedi il Monte Nitay per giungere al Monastero delle Beatitudini sul Lago di Tiberiade.
La discesa fu molto faticosa: dovevano aggrapparsi a delle maniglie inchiodate (tipo rocciatori) nella roccia, mettere i piedi su spuntoni e pietre, aiutandosi l’un l’altro; a metà della discesa si fermarono per riposare.
Quando si alzarono, lei scivolò sulla ghiaia e cadde, si rese subito conto dal dolore e dall’immediato gonfiore della mano della rottura del polso destro.
La soccorsero e le diedero un fazzoletto da mettere a tracolla per sorreggere il braccio.
Giunti ai piedi del monte c’era il bus e in poco tempo raggiunsero il ristorante.
Al ristorante un componente del gruppo, medico ortopedico, (fortuna!) visto il braccio capì subito la gravità della situazione, si fece dare un cucchiaio che sagomò, improvvisando una stecca per poter mettere in asse la mano con il polso e fasciò con delle bende.
In dolore era lancinante.
Nel pomeriggio raggiunsero il Lago di Tiberiade, Capharnao spingendosi fino a Cana di Galilea.
Alla sera, il rientro sul Tabor fu un’avventura.
Sul Tabor si va a piedi o affittando i bus locali; l’autista del loro pulmino li rassicurò dicendo di avere il permesso per salire, quindi erano tranquilli.
Percorsi pochi chilometri li raggiunse un “quod”, una moto a quattro ruote motrici, guidato da un soldato armato fino ai denti, portava una cartucciera a tracolla e due mitra, sorpassò il mini-bus, gli sbarrò la strada e intimò all’autista di tornare indietro.
Scoppiò una discussione tra gli uomini, l’autista e il militare, che spianò un’arma.
Intervennero le donne, calmarono i mariti, convinsero l’autista a tornare indietro e prendere i “loro” mezzi per salire; ne affittarono due mentre l’autista rimase sul suo mini-bus per non abbandonarlo.
A notte fonda l’autista arrivò sul monte.
La mattina successiva fecero colazione alle cinque e partirono alle sei per poter scendere inosservati e non incorrere nei problemi del pomeriggio precedente; i controlli iniziavano intorno alle ore otto.
Arrivarono a Jenin dove incontrarono la prima guida.
Attraversarono il mercato, comprarono della frutta, si fermarono in un angusto negozietto, una sorta di panificio dove preparavano delle focacce, ne fecero fare un discreto numero per il pranzo al sacco.
Il cammino per arrivare a Zababde fu lungo, attraversarono campi e sentieri sotto il sole; lei con il braccio al collo faceva una grande fatica, il dolore non l’abbandonava.
All’ora di pranzo sedettero all’ombra di alcuni alberi, si rifocillarono e riposarono.
Tre contadini, anche loro intenti a pranzare e riposare, li guardavano incuriositi, la guida spiegò loro chi fosse quel gruppetto di stranieri e il perché di quella strana camminata.
Dopo la sosta si avviarono alla casa di una famiglia di pastori.
Vennero accolti nell’unica stanza della casa, fatti sedere su tappeti sparsi sul pavimento, fu servito del the; la figlia del pastore andò al pozzo, vi attinse acqua freschissima e la offrì agli ospiti.
L’enorme stanzone aveva chiodi su una parete ai quali erano appesi pochi abiti, su un lato della stanza, una pila di materassi, all’esterno un grande spiazzo dove c’era il pozzo e tutt’attorno la terra brulla con filari di fichi d’india.
Aiutati dalla guida e dalle conoscenze linguistiche del prete, riuscirono a farsi raccontare il loro modo di vivere, fatto di cose semplici, scandito dal ritmo del lavoro nei campi e dalle esigenze degli animali.
Sembravano persone di altri tempi.
Il marito vestito di nero, magro e sdentato indossava un berretto di feltro, la moglie vestita di scuro con un fazzoletto in testa, anche lei sdentata, dimostravano sicuramente più della loro età, la figlia vestiva una tunica colorata e un fazzoletto le copriva il capo, tutti e tre avevano la pelle cotta dal sole e un sorriso sereno.
Colpiva la loro tranquillità.
Dissetati e riposati, i pellegrini, ripresero il cammino; nel tardo pomeriggio giunsero a Zababde.
Nel paese risiedevano persone di diverse confessioni religiose, coabitavano in pace rispettandosi gli uni e gli altri.
Ad aspettarli il parroco del paese; quando la vide con il braccio al collo volle sapere cosa le fosse capitato e il Don raccontò la vicenda; il parroco insistette perché fosse accompagnata all’ospedale del paese vicino, disse: ”E’ un ottimo ospedale”.
Lei non voleva andare ma, esortata dal Don per non urtare la sensibilità del parroco, acconsentì.
Volle essere accompagnata dal Don –che conosceva l’arabo- e dal medico del gruppo.
All’ospedale trovarono il capo degli infermieri, un uomo corpulento con una tunica lunga fino ai piedi bianca e un fez; il Parroco spiegò la situazione e lui diede disposizione per farle fare i raggi al termine dei quali lei capì la parola “chirurgique”.
Disorientata e alquanto spaventata parlò con il suo parroco che andò ad accertarsene, era proprio così, volevano operarla.
Lei si oppose.
Il Don telefonò all’organizzatore del viaggio raccontandogli l’avvenimento, quindi parlò al parroco di Zababde: ”Fra due giorni saremo a Nazareth dove c’è l’Ospedale delle Suore Francesi, secondo il nostro organizzatore sarebbe meglio accompagnarla là, per una questione di assicurazione”, il parroco capì e spiegò la situazione al capo infermieri che consegnò le lastre al prezzo di 3 €; dopo aver sistemato il polso e somministrato un calmante  tornarono al villaggio.
A Zababde alloggiarono presso alcune famiglie, sorteggiate tra quelle che avevano aderito a dare ospitalità ai pellegrini in cambio di una ricompensa; lei fu accompagnata nell’alloggio dove l’aspettavano i padroni di casa e la sua amica.
La famiglia era composta dal papà, la mamma e due bimbi.
Il papà intrattenne le ospiti, per fortuna l’amica sapeva il francese, la mamma con i bimbi si chiuse in camera, non li videro più.
La cena fu molto povera, un pezzetto di formaggio, poche olive e pane; lei, stanca e dolorante, prese un antidolorifico e si addormentò.
La mattina seguente al risveglio si rese conto della situazione.

Una casa poverissima, composta da due camere da letto e una cucina dove c’erano: un lavandino, un fornello su una mensola, un tavolo, alcune sedie una diversa dall’altra, un divano vetusto, un tavolino sul quale vi era un televisore; dietro al tavolo una paratia e tramite una porticina si entrava nel gabinetto; sulla parete del lavandino si aprivano le due porte delle camere da letto.
Le due donne, si prepararono, fecero colazione, del the e un pezzo di pane e, accompagnate dal capo famiglia, senza più vedere né la moglie né i bimbi, si avviarono in chiesa dove avevano appuntamento con gli altri compagni di viaggio.
Quel giorno, a Zababde si festeggiava la domenica delle Palme e il Don spiegò: “La Pasqua nel calendario cristiano è una festività così detta “mobile”: per poter convivere con le altre comunità, quella cristiana sposta di volta in volta la data della Pasqua, le altre confessioni fanno altrettanto, con questo compromesso riescono ad essere uniti, rispettando ognuna il Credo e i riti dell’altra e partecipando alle rispettive festività”.
Fuori dalla chiesa, poggiati in terra, un mucchio di rami di ulivo in attesa di essere benedetto.
Sul sagrato, arrivarono in processione il Parroco di Zababde seguito dai parrocchiani che portavano grandi foglie di palma; giunti davanti all’olivo, il parroco, lo benedisse ed entrò in chiesa, sembrava di vivere una scena dei film che raccontavano la vita di Gesù.
Dopo la Santa Messa officiata dal Parroco e dal Don, si avviarono per Sebaste dove pranzarono.
Nel pomeriggio raggiunsero Nablus, in Samaria, incontrarono una seconda guida che li accompagnò al pozzo di Giacobbe.
Ad attenderli una giovane suora, unica presenza e custode del sito, felice di vederli e poter parlare con qualcuno; vita difficile la sua, sempre con la paura di essere un bersaglio per giovani guerriglieri pronti a distruggere quel luogo di religiosità.
Visitarono il Pozzo di Giacobbe dove la suorina attinse l’acqua.
Strada facendo cambiarono guida, la terza; aveva il compito di accompagnarli, attraverso strade tortuose non praticate da auto, sulla via dei patriarchi per Awarta e Agraba.
Furono ospitati al “Centro Sociale”, un centro gestito da sole donne.
Le donne, volevano creare qualche cosa per il futuro dei loro figli, così era nato un luogo simile ad un asilo per i più piccoli, una scuola per i bambini grandicelli, una piccola infermeria e una palestra; contrastato dagli uomini del paese, che più di una volta avevano tentato di distruggere tutto, ma loro, forti e caparbie, proseguirono per la loro strada.
Chiesero vari consigli ai pellegrini, ponendo domande aiutate dalla guida e dal Don; tutti secondo le proprie competenze furono felici di essere utili, alcuni acquistarono oggetti dell’artigianato locale.
Partirono da lì per Duma.
Furono ospitati presso una famiglia dove le donne avevano preparato per loro dolci e tè, invitando le signore ad entrare in casa per la degustazione e facendo sedere gli uomini in terrazzo; un ragazzino li intrattenne suonando un caratteristico strumento a fiato e un altro danzò; le donne osservavano tutto dall’interno della casa, attraverso le persiane (gelosie) socchiuse, non avevano il permesso di uscire.
Alla sera giunti a Taybe, alloggiarono dalle Suore Francesi dove salutarono la loro ultima guida.
Ripresero il cammino per il deserto di Giuda, lei non vi andò, troppo faticoso percorrere quei sentieri, già esplorati nel precedente pellegrinaggio, così andò a Gerico salendo in funivia sul Monte delle Tentazioni.
Il pomeriggio lo trascorsero sul Mar Morto e la sera arrivarono a Betlemme.
Da Betlemme a Gerusalemme.
Dovettero varcare a piedi un posto di blocco munito di metaldetector; tutti in fila, stretti uno dietro l’altro, per non dare modo a chi volesse oltrepassare il muro di infilarsi in mezzo a loro; provarono un’ansia indicibile.
Il Don in testa alla fila attraversò per primo il blocco e via via gli altri.
Quando passò lei il congegno si mise a suonare, i soldati fermarono tutti; il Prete non si accorse dell’accaduto, lei lo chiamò, nel frattempo mostrò le lastre dei raggi, il Don ritornò sui suoi passi e dopo le opportune spiegazioni, gli fece capire che aveva un cucchiaio a mo’ di stecca per tenere fermo il polso, tutto si calmò.
Nei due giorni successivi visitarono Gerusalemme, quindi partenza per l’aeroporto di Tel Aviv per il rientro in Italia.
Giunti a Genova, il mattino seguente lei si recò in ospedale e quando il figlio disse ai medici del cucchiaio ancora inserito tra il polso e la fasciatura, un infermiere, mentre la sbendavano, scattò con il suo cellulare delle foto in successione, dicendo: ”Se no, chi ci crede?”.
Dai nuovi raggi la conferma che il polso era in briciole e occorreva un intervento.
Fu un Pellegrinaggio, intenso nei percorsi e nelle esperienze a contatto delle persone e delle loro vite, tanti i momenti di preghiera e di raccoglimento fatti nei luoghi frequentati da Gesù.