Un viaggio speciale

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Oggi sarebbe stato il mio anniversario di nozze. E' domenica e come quasi ogni domenica pranzo con i miei figli; seduti a tavola mi ricordano la ricorrenza festeggiata undici anni fa con un viaggio, da loro offerto, quale regalo per il mio trentesimo anno di matrimonio e immagini miste ad emozioni contrastanti riaffiorano alla mia memoria. Era il nostro anniversario, mio e di mio marito, ma non a caso sopra ho scritto che la sorpresa era per il mio trentesimo anno di matrimonio. Mio marito non amava viaggiare, mentre io avrei voluto girare il mondo in sua compagnia, ma gli impegni familiari e di lavoro lo avevano impedito. Per la verità qualcosa avrei potuto concedermi, ma non mi andava di partire lasciando a casa mio marito, non avrei goduto il viaggio senza avere qualcuno con cui condividerne le impressioni, le conoscenze e le emozioni suscitate. Così qualche volta parlavo dei viaggi che avrei voluto fare, senza mai realizzarne alcuno, tranne qualche uscita per lavoro o le tradizionali ferie in montagna, in un luogo ameno, di cui però conoscevo non solo i sentieri, ma quasi i sassi che ogni volta calpestavo per giungere alle mete, desiderate, però anche un po' scontate. In quel paesino di montagna che ha visto crescere i nostri figli, ogni volta più grandi di un anno, ci stavo bene, ma certo la mia idea della vacanza e del viaggio era un po' diversa. Quel viaggio offerto dai miei figli era per me, quindi, per il “mio anniversario”, perché mio marito la prese alquanto male. Arrivò a pensare che ci fossimo coalizzati contro di lui per obbligarlo a lasciare casa sua e il suo mondo, poiché non desiderava affatto festeggiare in quel modo quella data importante. Ci volle del tempo perché si convincesse delle buone intenzioni dei miei figli, ma era un viaggio a Parigi, ed io ero certa, poiché conoscevo mio marito, che una volta vinta la ritrosia, avrebbe apprezzato la sorpresa che i figli avevano pensato per noi.
Così partimmo. Trovammo tutto organizzato con cura: il viaggio, il soggiorno, gli ingressi ai musei.
Non mi sembrava vero. Alloggiavamo in una pensioncina nel quartiere della borsa, in una stanzetta al terzo piano senza ascensore, pulita e graziosa. La prima colazione ci veniva offerta in un piccolo
locale al piano terra da cui giungeva, fin sulla minuscola scala, il profumo del pane fresco e del cappuccino. Poche cose, quasi fossimo in famiglia, ma tutt'attorno l'atmosfera era quella parigina.
Cenavamo nei bistrots del viale su cui si affacciava la pensione e pranzavamo dove ci era più comodo.
La prima sera siamo usciti senza meta, seguendo le luci che illuminavano i monumenti e per incanto abbiamo raggiunto in pochi minuti il teatro dell' Opera e poi il Louvre. Ricordo quel primo vagare, in attesa di sorprenderci, con la stessa commozione di allora, quando siamo giunti alla facciata dell' Opera e ancora, poco più avanti, alla piramide del Louvre che non pensavo fosse così vicina.
Passammo una intera giornata al Louvre e ne uscimmo con la certezza che ne sarebbe servita almeno un'altra, ma abbiamo privilegiato le antichità classiche, egizie e greche e le stanze con gli autori francesi e italiani. Di quest'ultima collezione ho ancora impressa l'immagine di una galleria e la posizione che occupavano alcune opere rinascimentali bellissime (uniche come unico è il nostro Rinascimento), se erano all'inizio oppure alla fine o al centro della galleria. Ricordo chiaramente la sala dove era posta “La Gioconda” protetta da uno schermo, i cui riflessi impedivano di gustarne
appieno la vista, se non ponendosi in posizione centrale. Mi è parsa minuscola, mi aspettavo un quadro più grande, ma forse era lo spazio attorno troppo grande o ero io costretta ad ammirarla da
lontano, perché la sala era tra le più affollate.
Il giorno dopo, servendoci della metropolitana, abbiamo girato la città: dai Campi Elisi, all' Hotel des Invalides, alla tour Eiffel su cui pensavamo di salire l'ultimo giorno. Tornavamo a sera tarda e ci alzavamo abbastanza presto il mattino dopo, troppe mete ci attendevano, prima fra tutte l'Orsay per il quale avevamo la prenotazione in mattinata. Siamo entrati senza attendere in fila, era presto e
il museo era poco affollato: l'emozione era forte già all'ingresso: ricordo ancora chiaramente le enormi sculture sul piazzale e la sala centrale. L'orologio della vecchia stazione si alzava là, sotto la
vetrata, dove le statue ottocentesche, in vario stile, mi sembravano tutte degne di essere ammirate meno frettolosamente, ma non avevamo molto tempo ed io lo volevo spendere al meglio nelle sale degli impressionisti. Con gli occhi pieni di meraviglia potevo vedere da vicino la colazione sull'erba e l' Olimpya di Manet, la donna con l' ombrello, le ninfee e il giardino di Gyverni di Monet, le scene di vita parigina di Renoir, le ballerine di Degas e poi i paesaggi e quella natura morta di mele e arance di Cézanne che avevo cercato di copiare, dipingendola con le tempere o la stanzetta di Van Gogh che avevo visto, fino a quel momento, solo in fotografia. Non c'era museo che avrei desiderato visitare più di questo, mentre mio marito avrebbe preferito tornare al Louvre o salire sulla torre Eiffel, ma non ci fu possibile altro perchè nel primo pomeriggio fummo colti da un acquazzone che ci costrinse a tornare fradici alla nostra pensione. Per fortuna durò poco, così dopo
una doccia calda, decidemmo di uscire nuovamente ed al tramonto eravamo a Montmartre.
Ci rimaneva ormai un solo giorno e lo dedicammo a visitare l' Ile de la cité: la gotica cattedrale di Notre-Dame con le torri della facciata e le guglie laterali, mi sembrava immensa, ma volli ammirarla e fotografarla da ogni lato. La Sainte-Chappelle dall'ingresso quasi nascosto, raccolta nella luce soffusa che entrava dalle splendide vetrate, piacque molto anche a mio marito.
Avremmo voluto quell'ultima sera prendere il battello per spostarci sulla Senna, o salire sulla tour Eiffel ma il tempo non era dei migliori e decidemmo di passeggiare nel quartiere in cui alloggiavamo.
Ci sarebbe servito qualche giorno in più, eravamo molto stanchi ed io, distratta da quello che ancora volevo fermare come ricordo in una fotografia, non vidi il gradino minuscolo di un marciapiede,
caddi a terra e rischiai di farmi davvero male: per fortuna picchiai solo un ginocchio.
Mio marito non ammise mai che l'esperienza sarebbe stata da ripetere, anche se sono sicura che abbia alla fine apprezzato il dono fatto dai nostri ragazzi, perché lo avevo convinto l'autunno seguente a partecipare ad un viaggio organizzato dal Cral dell'Università in cui lavoravo. Purtroppo non riuscimmo a partire perché si ammalò gravemente. Lo aspettava un altro viaggio, assolutamente indesiderato, ben più impegnativo e per un luogo sconosciuto in cui doveva recarsi da solo, lasciandomi sola.
Io riguardo le fotografie e penso che ero appena uscita da una grave malattia quando i miei figli hanno voluto per noi questa vacanza che ci ha visto insieme a condividere le cose belle della vita e
sono a loro grata, perché una coppia ha bisogno anche di questo.
Io sono sopravvissuta alla mia malattia, ma per lui purtroppo non è stato così Non riesco a rivedere le fotografie e ripensare a quei momenti senza sentire la mancanza del compagno di una vita e rivivo emozioni contrastanti, ma il viaggio è anche questo, perché così è la vita.