di: Marinella Marsiglia
Quella volta, invece delle nostre solite macchine per spostarci, prendemmo a noleggio un pulmino abbastanza capiente non solo per raccogliere la nostra brigata d’attori, ma anche per trasportare due grosse ceste di vimini con tutti i costumi di scena.
La meta era un paesino nascosto nel cuore dei Sibellini, dove il Sindaco, amico del nostro Regista, ci aveva da tempo invitati per una “amichevole” rappresentazione teatrale.
L’idea del pulmino piacque a tutti, così, potevamo viaggiare insieme, evitando soste per aspettare gli altri che seguivano più lentamente.
La partenza fu stabilita per le nove del mattino in modo da prepararci comodamente ed essere puntuali sul luogo d’incontro stabilito dall’autista.
Quel viaggio era atteso come una dolce pausa, sia dal lavoro quotidiano, e sia dalle prove teatrali che negli ultimi mesi, si erano fatte veramente stancanti per la nostra severa preparazione al Festival di Pesaro.
L’incontro fra noi fu, come sempre chiassoso e rumoroso soprattutto da parte delle attrici che si abbracciavano e si interrogavano con risatine e gridolini di gioia, mentre invece i ragazzi si davano da fare caricando le ceste e tutti i nostri bagagli personali.
Presi i nostri posti, aspettammo il via de Regista, che occupato il suo, dietro il guidatore, ci salutò con un vago sorriso, espressione rara da parte sua, ma che diede subito vita ad un allegro rilassamento generale.
Dopo qualche chilometro, il chiacchierìo diminuì e divenne brusio per spegnersi del tutto; qualcuno si mise a dormire, mentre la maggioranza, guardava incantata fuori dal finestrino.
Era Giugno e il giorno si apriva con il fremito delle sue ali alla bellezza del creato: un’aria più tiepida entrava curiosa nel nostro mezzo recandoci l’odore fragrante dei tigli che come soldati, vigilavano attenti lungo i viali che percorrevamo. Le case ci venivano incontro veloci, poi subito, ci salutavano festanti con i rossi gerani alle finestre e i panni palpitanti messi ad asciugare.
Poi ecco le care colline marchigiane che come l’usanza delle antiche “vergare”, ci accoglievano circondandoci di tenere armonie e da dolci sapori. Le loro mantelle di terra erano schizzate ora, da un verde lucente, poi chiaro, poi ancora più scuro ed infine dal giallo, quelle del grano, che si affacciava già pronto ad occhieggiare intorno curioso.
Con lo spuntino delle dieci, la compagnia riprese il suo vocìo; c’era la distribuzione e lo scambio dei panini, dei dolciumi, tutto accuratamente preparato dalle ragazze.
Non si poteva scendere, Paolo, l’organizzatore, l’aveva detto fin dall’inizio del viaggio con la sua bella voce calda. Tutto era stabilito, calcolato come le fermate per il bagno e soprattutto quella per il pranzo, già prenotato alla “Ginestra “, famoso locale per le sue caratteristiche gastronomiche. Allora cominciavano, lenti e sempre un po’ stonati i cori degli Alpini, le risate con le barzellette i giochi di sveltezza come il “cucuzzaro” ma soprattutto quello delle poesie interrotte, alle quali si doveva rispondere recitando subito a memoria, la strofa successiva. Le più citate erano quelle di Pascoli, di Leopardi, di Carducci e di Mercantini. Si dimostrava incoscientemente, quanto fosse importante le rievocazioni di certi sentimenti profondi come quello per la Patria, per le persone amate o per le speranze di una vita futura.“La recita delle poesie”, sottolineava serio il Regista,” è importante per la disciplina della memoria, per la dizione e in modo particolare per il sentimento che è nascosto in ogni lirica; piccole strofe che impariamo sui banchi di scuola, ma che ci portiamo dietro come sorelle silenziose che ci incoraggiano anche nei momenti più tristi.”
Dopo un pranzo ghiotto e colmo di sorprese,riprendemmo il nostro viaggio, la stanchezza però cominciava ad affiorare; in silenzio ad occhi socchiusi, non ci accorgemmo che le belle colline erano svanite tra i loro colori e che alte montagne,osservavano maestose il nostro passaggio.
Ora la vegetazione non era più verde brillante come prima, ma manti scuri cercavano di arrampicarsi con fatica fino alle cime, trasformandosi ora in prati scoloriti ed ora in bianche petraie. Qualche nuvola, risalendo, era rimasta impigliata su una roccia mentre in alto una vetta brillava con la sua corona regale, fatta da lingue di neve candida: Erano i Sibellini, gli antichi Padri che vigilavano e conservavano da sempre misteriosi segreti nelle pieghe dei loro ampi mantelli; le leggendarie montagne azzurre, dove, secondo le tradizioni popolari, aveva trovato riparo, in un regno sotterraneo, la Sacerdotessa Sibilla, nascosta con le sue Fate dalle zampe caprine e gli immensi tesori.
Seguitammo così per ore ed ore il nostro viaggio in silenzio, ciascuno raccolto nei propri pensieri, quando improvvisamente il cielo si oscurò e una pioggia violenta e rabbiosa, si scatenò maligna su tutto. Le montagne persero subito l’aspetto confortante e sereno di poco prima per trasformarsi con rapidità in enormi giganti, grigi, minacciosi con la terribile voce del vento.
Trovammo quasi subito un riparo e sostammo sicuri senza scendere; l’autista conosceva bene i luoghi e ci confortò prontamente leggendo la paura che traspariva dai nostri volti. “Sono fenomeni passeggeri” Ci disse sorridendo “Sono violenti ma di breve durata”. Mi rincuorai come gli altri e sorrisi per la mia debolezza ma mi vennero in mente, rapide e chiare, quasi con prepotenza, le immagini terribili illustrate dal Dorè nel “librone” della Divina Commedia, che troneggiava nella biblioteca di famiglia. Spesso da bambina rimanevo incantata ed anche impaurita di fronte a quei disegni in bianco e nero, con personaggi nudi, dai volti orrendi con enormi ali da pipistrello; erano i Diavoli che percuotevano i dannati che tentavano di fuggire.
Pensai che il pranzo fosse stato pesante o forse era frutto del mio solito mal di testa che mi tormentava ormai da diversi mesi, comunque cercai di rilassarmi e osservando in alto il volo leggero di un uccello, e sentendo il mezzo ripartire, mi addormentai.
All’inizio il sonno fu lieve ma distensivo, poi precipitai come in un vortice sempre più veloce e buio dove si affacciavano a tratti visi strani, prima sfocati poi sempre più chiari: Erano fanciulle che mi chiamavano e cantavano festanti ma la loro melodia era infastidita come da un fastidioso calpestio. Mi venivano incontro e mi invitavano a ballare con loro, io esitavo allora una di loro, la più impetuosa, mi prese per mano e mi sollevò sprofondandomi dentro un enorme pozzo nero. “E’ la fine!” pensai inorridita, invece dopo un turbinio, di acqua e terra, mi ritrovai nella luce di un tempio dorato, una donna era al centro, con un turbante verde e oro e una tunica di seta rossa. mi attendeva e senza guardarmi profetò:
“SI STRAPPERANNO I LACCI
E DALLE VISCERE DELLA TERRA,
USCIRANNO I MOSTRI CHE LA
DILANIERANNO”
Dette queste parole, di nuovo le ragazze mi circondarono e mi ritrovai fuori dal turbine e facendo come un balzo, gridai insieme a tutti gli altri attori. L’autista si girò subito verso di noi dicendo ancora spaventato:” E’stato un cinghiale che mi ha attraversato improvvisamente la strada, non l’avevo visto! Scusatemi per la brusca frenata!”
Ripresero fra tutti le conversazioni più animate, mentre io rimasi silenziosa, confusa, e mi guardavo attorno smarrita; era stato solo un sogno dunque, un semplice sogno. Non ci pensai più soprattutto quando il Regista, finalmente sorridente, annunciò soddisfatto che eravamo giunti alla meta.
Infatti un paesino, accucciato alla sua montagna, ci venne incontro con le finestrine delle case rosse che rispondevano al saluto del sole morente Era adagiato alla parete come un piccolo al petto materno. In alto si scorgeva subito la torre, ancora vigile, attenta testimone di un antico castello e sotto le case, nate disordinatamente, davano l’idea che volessero stringersi in un sicuro e tenero abbraccio.
Finalmente scendemmo, eravamo stanchi e subito ci incamminammo sotto l’antico arco, ingresso del paese, sul quale c’era una scritta che non riuscii a leggere. Ci venne incontro il Sindaco, che appena vide il suo amico, alzò le mani per un forte abbraccio, ugualmente fece il nostro Regista stringendolo al petto con affettuosa amicizia. Anche i paesani vennero curiosi e si presero subito cura dei nostri bagagli. C’era gente di tutte le età, famiglie intere con i bambini, giovani, anziani, vestiti così com’erano in casa, contenti del nostro arrivo.
Salendo per andare verso il centro del paese, attraversammo stradine antiche, lastricate, che ci narravano, orgogliose le storie di un tempo ormai svanito, ma lo ricordavano, in un modo sereno, tranquillo, con le invitante botteghe artigianali, gli usci sempre aperti e con grandi cascate di fiori alle finestre. Anche le pietre grigie delle case, scintille della stessa montagna, trasparivano allo sguardo del visitatore, la semplicità di mani sapienti che proteggevano ancora il tepore di tante famiglie.
Sotto un portico in cotto, un vecchio lavatoio e poco distante, la Chiesa di San Benedetto dal portale legno scolpito e dentro l’odore umido che sapeva d’antico, Così tutti insieme, mentre il Sindaco ci descriveva il suo regno, come lo chiamava, giungemmo sulla piazza dove una fontana cantava la sua canzone rispondendo ai tocchi dell’orologio sulla torre merlata.
Lo spettacolo teatrale, tanto atteso dai paesani ma anche da noi, ebbe inizio la sera seguente del nostro arrivo, in un salone adibito per il ballo annuale. Il Sindaco, ansioso sul da farsi, si scusava più volte con il Maestro e con noi perché il piccolo teatro comunale. Purtroppo inagibile, non poteva essere messo a nostra disposizione, tuttavia riuscì a procurare tra operai, elettricisti e altra gente volontaria, un fermento tale, così operativo che già a età mattinata, il salone si trasformò d’incanto in un vero teatro con tanto di palco, scene, sipario e con una platea arredata da sedie di paglia, sgabelli e anche da lunghe panche prestate dal Parroco.
Il successo fu immediato, l’intero paese venne contento per ascoltarci; attento ed interessato, seguiva ogni nostra battuta,afferrava ogni comicità, ogni piccola ironia velata battendo le mani al tempo giusto per sottolineare il loro assenso. Le donne in particolare, erano rimaste incantate dalle parrucche e dai costumi goldoniani, venivano a controllarli da vicino, a toccarli con i loro bambini in braccio. Il Sindaco si complimentava con il nostro Regista e questi stranamente con noi incoraggiandoci a seguire ancora il teatro che a suo dire, era estremamente educativo e formativo specialmente nella nostra giovane età.
In cuor mio, riflettevo e consideravo che non era stata tanto la nostra interpreta-zione a suscitare successo, al contrario, erano stati loro, i paesani ad insegnarci con il loro attento ascolto, con gli sguardi umili e dolcissimi a rappresentarci il loro mondo ancora innocente al confronto del nostro già nascosto sotto una maschera.
Era giunto il momento di ritornare, ci accompagnarono al pulmino festanti e riempiendoci con mazzi di fiori appena colti e piccoli doni per il viaggio. Paolo era già ad attenderci e mentre riprendevamo i nostri posti, i due amici si salutarono promettendosi di rivedersi presto con un altro lavoro,questa volta però al teatrino comunale.
Ripartimmo veramente contenti e soddisfatti dell’esperienza fatta. Anche io sorridevo, ero più serena, il mal di testa sembrava scomparso e, salutando le montagne che ci lasciavano,mi vennero in mente le parole della Sibilla, com’è che dicevano? Non me le ricordavo più, le dimenticai per tanti anni fino a quel giorno terribile che la mia terra tremò.
Tornammo a casa, alla nostra vita di sempre, riprendemmo più sereni il nostro lavoro quotidiano con le prove teatrali due o tre volte per settimana. I mesi passarono svelti, così gli anni, molti di noi trovarono l’anima gemella e si staccarono naturalmente dal gruppo, altri andarono fuori città per un lavoro migliore ma nessuno di noi intraprese la carriera teatrale.
Ora le mie amiche sono nonne, magari qualcuna ha un nipote che recita o suona in una band ,l’amicizia che ci legava è stata appannata dai diversi colori della vita ,ma sono sicura che come me, tutte conservino un attimo di quel viaggio tra i Monti Azzurri, un ruscello limpido sempre vivo che ha vinto e superato quel vento impetuoso del tempo; una scintilla che ci ha maturate e ci fa’ rivivere ancora oggi, con estrema dolcezza frammenti di vita ormai trascorsa.