La strada del cuore

di: Marina Trazi

Un sogno nel cassetto che cullavo da anni era un viaggio nella parte di Argentina a ridosso della cordigliera delle Ande. Tante volte, bambina, avevamo ricevuto in famiglia visite da parte di Alberto B., un amico italiano di papà che vi si era stabilito con la famiglia subito dopo la nascita, e che ci aveva raccontato più e più volte, con l’entusiasmo che gli era proprio, di come fosse meraviglioso percorrere quella parte Argentina che, in zona andina, saliva verso la Bolivia, così la routa 40 con le quebradas si erano insinuate pian piano nel mio immaginario. Oramai Alberto se ne è andato, ma i ricordi vividi del suo parlare italo-argentino si erano radicati nel mio immaginario.
Eccomi allora arrivare a Tucumán, dinanzi alla “Casa dell’Indipendenza”, costruzione che vide un periodo di tumulti culminati nel 1816 con l’indipendenza del paese. Ed è da qui che inizia la mia avventura nella parte di Argentina che pare lontana dalla civiltà. La campagna è illuminata dal sole, un caldo torrido e umido mi abbraccia e solo l’aria che entra dai finestrini di una vecchia corriera è di sollievo, sono partita per la mia destinazione: le Ande argentine. La vegetazione lussureggiante fa da contorno alla strada, il bus si inerpica nella stretta gola del Rio de los Sosas lungo la via che porta a Tafi del Valle a 2100 metri di altitudine. La foresta subtropicale fa da barriera ai tornanti e qualche rara casetta trova spazio, accanto alla strada, in una giungla di rami di incredibili liane e di vegetazione fitta e rigogliosa. La montagna scoscesa, che costeggia la via, è ricoperta da un muschio consistente, fitto e fresco, intercalato da tappeti di edera lunghi chilometri e chilometri. Si possono riconoscere piante che da noi, sopravvivono, a stento, in casa, con radici prigioniere in un vaso, mentre qui sono nel bosco a raccontare, nel loro ambiente naturale, la loro storia centenaria. Il tragitto che si deve percorrere non è particolarmente lungo, ma lo diventa con le numerose e complesse soste: la discesa e la salita dal bus di famiglie ricche di bimbi, di ceste e valigie richiedono tempo e pazienza, ma…questa è proprio una delle prerogative di questo popolo lento e sereno. L’autista, altrettanto rilassato, non si affretta più di tanto nel fare i biglietti rivolgendo ad ognuno parole di interessamento.
Giunti al termine della salita e valicando il passo ci si trova dinanzi a ben altro spettacolo. La vallata è ampia, aperta e luminosa. Il clima è completamente cambiato dalla partenza, ce lo confermano praterie sconfinate e verdissime dove cavalli, mucche, asini, lama e pecore, tutti insieme conferiscono una tenera immagine agreste. La cittadina è spartana, ma con tracce di antico lusso. Parecchie case di tucumani in vacanza costellano la periferia e un mercatino di prodotti locali artigianali vivacizza il centro abitato. Ricevo una bella accoglienza: di italiani da queste parti se ne vedono pochi. Con una passeggiata pomeridiana raggiungo la Capilla la Banda, cappella gesuitica settecentesca restaurata consapevolmente dove il custode mi mostra con cura e vivo interesse anche l’interno del convento. I suoi occhi vividi parlano per lui che si rallegra raccontando la storia della costruzione, le vicende che hanno visto la luce all’interno delle mura e le vicende storiche legate a quei luoghi.
Arrivo a piedi a fondo valle per visitare un museo a cielo aperto di rovine dei Medil Tafi, una tribù locale che abitò la vallata nell’antichità. I menhir di pietra sono stati nel tempo trovati in valle e poi successivamente raggruppati ed esposti in questo posto suggestivo. Queste pietre hanno tutte un significato e una storia, una gentile ragazza discendente da questa tribù mi parla con amorevole passione e con voce suadente della storia e dei ritrovamenti dei vari pezzi esposti. Intanto la vallata è oscurata da nuvoloni carichi di pioggia che coprono le cime circostanti. Il verde intenso e brillante di Tafi del Valle è giustificato da questo clima altalenante tra ore di sereno ed altre ore piovose all’inverosimile.
Oggi ho previsto una giornata in piena cultura Quilmes e mi devo trasferire, utilizzando un remisero, verso nord. Il mezzo si inerpica su di una strada di montagna, il tempo e la poca cura hanno trasformato l’asfalto in un susseguirsi di buchi. Strisciate di ciottoli hanno invaso con la pioggia la sede stradale ed alcuni torrenti la attraversano con il loro carico di acque, ma l’autista è capace di

destreggiarsi bene ed è ottimista sul tempo che troveremo dopo aver valicato il passo dell’Infernillo, nome ben azzeccato che dice tutto sul clima del posto. Dall’altra parte della montagna la nebbia si dirada, un pallido sole fa capolino per poi improvvisamente illumina una vallata e un paesaggio completamente differente. Ed è a questo punto che i cactus cardones fanno la loro comparsa nel mio viaggio. In questa valle ampia e aperta essi svettano alteri nel panorama infinito della piana che risulta circondata in lontananza, molto in lontananza, da catene andine verso le quali mi sto dirigendo. In zona si tiene oggi la festa della Paciamama. La dea terra. Gruppi di indios nei loro variopinti e caratteristici costumi, con un copricapo d’ordinanza, sono in arrivo da ogni dove. La loro cultura fa riferimento agli elementi legati alla natura. Cristianesimo e paganesimo si sono fusi in un patrimonio di conoscenze che i nativi portano avanti dal 500 quando i gesuiti e i conquistadores spagnoli imposero con la forza la loro religione. Essi arrivano a piedi, in bicicletta o, orgogliosi, sulle loro incredibili auto tenute insieme con il fil di ferro, con il colore della carrozzeria ridotto ad una vaga sfumatura, i vetri dei finestrini costellati da vaste crepe a ragnatela provocate dai sassi schizzati da altre auto. Visi forti, espressivi, seri e dignitosi, raccontano di vite intense, di sacrifici, di semplicità, di esistenze lontane dal consumismo e dalle rotte della globalizzazione e dal turismo di massa. La festa è appena iniziata, ma ben altro mi sta aspettando.
Arrivata a fondo valle percorriamo un tratto della mitica routa 40 una strada che attraversa tutta l’Argentina dalla Terra del fuoco alla Bolivia scorrendo parallela alle Ande. Le acque cadute in montagna nelle ultime ore hanno trascinato a valle terriccio e ciottoli che hanno invaso in più punti la sede stradale già di per sé sconnessa. Le ruspe sono al lavoro e solo l’abilità del mio autista riesce a portarmi oltre un guado all’imbocco della riserva dell’antico insediamento del Quilmes. Fondata nell’anno 1000 d.C. Quilmes era un insediamento urbano popolato da 5000 persone che occupava 30 ettari. Una giovane universitaria, discendente da questo popolo, mi guida alla scoperta di quella che fu, in passato, il centro abitato più importante della regione dove il suo popolo lasciò testimonianze e vestigia della sua antica cultura. Esso sopravvisse ai contatti con gli Incas, ma fu costretto a cedere all’assedio degli spagnoli che nel 1667 deportarono a Buenos Aires gli ultimi 2000 abitanti.
Le rovine parlano al cuore, mentre la ragazza, Judith, è orgogliosa di relazionare a una italiana, incontro raro da queste parti. Mi narra la storia del suo popolo, di come viveva, del sistema di costruzione delle abitazioni, del metodo di immagazzinamento dei raccolti, del modo di conservarli, delle vedette poste a difesa dell’abitato, del loro capo villaggio e di come stelle, Luna e Sole fossero, insieme all’acqua un patrimonio per il suo popolo. Cactus cardones svettano selvaggi tra i resti e fanno ora da sentinelle stagliandosi al sole sulle creste della montagna e tra le rovine, a riprova che tutta l’area fu abitata in passato…e io ad immaginarmi questo tranquillo popolo intriso di una sua cultura, che poi fu ucciso o deportato dagli Europei arrivati inattesi dal Nord con la loro presunzione di onnipotenza. Elegantemente vestiti, pieni di superbia, gli Spagnoli passarono su una cultura diversa, ma ricca di storia e di sapere senza porsi problema alcuno sicuri di essere nel giusto. Percorro con lei quelli che furono i viottoli e i sentieri tra le case sino alla parte alta della valle, da dove si può ammirare, in un colpo d’occhio, l’intera estensione dell’area che fu vivace terra natale per migliaia di indios. Sono incantata dal racconto sapiente e consapevole di questa ventenne con lo sguardo fiero, con l’espressione vivace e intelligente, dalla proprietà di linguaggio e dalla conoscenza profonda della storia dei suoi antenati. L’aria profuma di storia e l’immensa piana ai nostri piedi lascia immaginare come i suoi abitanti furono costretti a cedere il passo alla cultura europea. Con un canaletto accanto ad ogni abitazione, arrivava acqua corrente ad ogni famiglia. Una pietra sacra al centro dell’abitato rimane a testimoniare, ancora una volta, come le stelle, con la loro posizione, aiutassero anche i Quilmes a capire il trascorrere del tempo. Il sole perpendicolare sulle nostre teste è ancora quello che illuminò il loro divenire e questo fatto rende più incantata la visita. Judith, il mio trait d’union tra passato e presente, lascia il segno nel mio cuore.
Cafayate è una cittadina nella quale sarebbe piacevole vivere. Arrivo in mattinata dopo un interessante percorso in bus. Le ore di viaggio corrono via veloci tante e tali sono le bellezze e le novità che

scorrono dinanzi agli occhi. Si arriva attraversando una interminabile serie di vigneti piatti in una valle sabbiosa a 1700 metri di altitudine. Per chilometri e chilometri è tutta una serie di aziende vinicole di enormi dimensioni. Siamo a febbraio e l’uva è quasi pronta per la vendemmia. La piazza principale della città, fulcro della vita del vivace centro abitato, è racchiusa a quadrilatero da abitazioni antiche, dalla chiesa e da negozi con porticati antistanti. In giro c’è movimento essendo il punto di partenza per le visite alle quebradas argentine. A ridosso di un angolo della piazza tiene bottega Dioli, un “discendente da padre italiano proveniente Da Sondrio”, come ama definirsi. Egli è nato e cresciuto in questi luoghi e risulta essere un tipo interessante. La sua bottega mi intriga subito piena zeppa come un uovo ancor prima di aver fatto la sua conoscenza. Dalle vetrine impolverate si intravede di tutto: entro incuriosita. Le vecchie scansie, che arredano a ferro di cavallo le tre pareti del negozio poste di fronte e di lato a quella d’ingresso, arrivano al soffitto e sono stracariche di ogni ben di Dio. Vicino a bottiglie di liquori anonimi ci sono grosse latte chiuse ed altre aperte, pezzi di stoffa colorata e mattoni di sale. Secchi di pittura dalle scritte colorate fanno bella mostra accanto a prodotti per il giardinaggio. Semi, che vengono venduti fusi, giacciono in cartocci che si appoggiano a grossi sacchi dalle pance gonfie di farine differenti tra di loro. E, come se non bastasse, mentre botti nero pece riempiono il pavimento insieme a grossi contenitori di granaglie, il bancone del negozio straripa di confezioni differenti, alcune sigillate, altre con le bocche aperte proprio accanto ad un indecente vassoio, dai bordi sporchi e rinsecchiti, che offre alla clientela, tra mosche e moscerini, tranci di salumi e di formaggi di produzione locale. Ma non finisce qui. Matasse di spago e bobine di fili di plastica colorata sono buttate a cavallo di una vecchia e sgangherata sedia posta di lato ad una vetrinetta di antica fattura, impolverata all’interno e dai vetri resi opachi dal pulviscolo. Essa contiene da un lato confetti e dolciumi stantii, dall’altro nastri colorati e vecchi bottoni. In questo bailamme Dioli, con mano sicura, riesce a pescare, di colpo, qualunque articolo gli venga richiesto dalla sua numerosa clientela. Annesso al negozio c’è anche un bar sempre di famiglia che si affaccia sulla piazza. Nonostante questa gran confusione Dioli mi conquista e lui mi dimostra la sua felicità nell’avere come cliente un’italiana seduta al suo bar/ristorante. Il nostro incontro volge al termine del pranzo, Dioli mi regala una poesia, scritta da un suo cugino, dove traspare la gran malinconia tipica di coloro che furono costretti per necessità a lasciare la patria natia.
Nel pomeriggio di questa giornata rovente, ma ventilata, affronto con un gruppetto organizzato la Quebrada del Rio de la Choncas Il cielo azzurro intenso fa da sfondo al nostro viaggio. La visita alle rocce di arenaria, aride e rossastre, alte come torri, costa fatica. Il sole perpendicolare sulle nostre teste e il caldo torrido penetrano persino nei polmoni. Ciò nonostante le mille sfumature delle rocce, il silenzio dolce e profondo che avvolge la quebrada, la luminosità del pomeriggio mi fanno gustare i vari momenti della camminata come qualcosa di straordinario. Il paesaggio, se mancassero gli effetti cromatici, potrebbe essere lunare. Vaghiamo interessati e silenziosi su rocce scoscese, fuori e dentro gole profonde con la percezione di come la natura sia riuscita a scrivere la sua storia. La Garganta del Diablo, gola del diavolo, El Anfiteatro, El Sapo, il rospo, El Fraire, il frate, El Obelisco e los Castillos scorrono dinanzi ai nostri occhi, ne percorriamo a piedi alcuni tratti, sotto un sole cocente, con l’animo sereno, incuranti del caldo secco e del vento bollente proveniente dal nord del paese. Grande pace regna intorno: la natura tace e tutto il gruppo riesce solo a bisbigliare dinanzi a uno scenario così solenne. Silenziosi rapaci volteggiano ad ali immobili nell’aria infuocata. Compaiono e scompaiono alla vista, trasportati dalle correnti d’aria. Essi sono i veri padroni della quebrada. In un Anfiteatro a cielo aperto un gruppetto di ragazzi suona arie note. I loro sono poveri flauti, fatti di canne tenute insieme con lo spago ma, l’eco della musica ci viene incontro e ci avvolge lieve, si insinua negli anfratti, ha un non so che di paradisiaco. Sono luoghi incantati…li senti nell’anima. Quella musica così soave mi ritorna di tanto in tanto alla memoria. La terra rossa, la roccia ruggine, le sfumature intense del luogo rimangono indimenticabili. La consapevolezza della loro povertà non intacca certo la loro dignità.
Con Fernando, un remisero del posto, mi inoltro di buona mattina nella Quebrada Calchaquies percorrendo un tratto della routa 40, inizialmente asfaltata poi sterrata e polverosa. Lo spettacolo che

ci viene incontro è incantevole. La giornata si presenta splendida di sole e luminosa all’inverosimile. La via corre tra strati sedimentari dalle forme più diverse e bizzarre. Procediamo lentamente ammirando con stupore le flechas, lance di roccia che si alzano dal terreno inclinate e, costeggiando la strada, che si incunea nella natura, transitiamo accanto a villaggi sperduti fatti di povere case di mattoni cotti al sole. Piccolissimi cimiteri, che spuntano dal nulla in qualche gomito di curva, baluardi estremi della fede, si presentano abbelliti solo con piccole croci e vecchie coroncine di fiori di plastica che lavorate dal sole e dal vento presentano improbabili colori.
Di tanto in tanto facciamo una sosta per “sparare” a raffica qualche foto digitale. In una di queste soste, accanto a una minuscola pieve, con a lato quattro vecchie abitazioni che parrebbero abbandonate, ho il piacere di fare un incontro che rimarrà nella mia memoria. Un gruppetto di bimbi del posto si materializza come dal nulla e si improvvisa guida per la visita alla chiesuola in cambio di qualche pesos. I loro occhi “liquidi” sono meravigliosi, i sorrisi innocenti e dolci e la disarmante semplicità del loro discorrere fanno breccia nel mio cuore. Due di loro, bene in carne, sono in vacanza dal nonno in questo periodo e dimostrano prontezza di riflessi e scaltrezza d’intenti, mentre gli altri tre, dai visi magri e smunti, scuri di carnagione, ma con chiazze chiare sulla pelle del viso, scendono dal cerro. Sono timidi e si presentano avvolti in poveri abiti fuori misura, consunti e sporchi, con calzature al limite dell’uso, che la dicono lunga su come sia la loro vita.
Di ritorno in città affitto una bicicletta per addentrarmi tra i vigneti e visitare un’azienda agricola. Dire che i vigneti sono immensi non rende comunque l’idea. Lo sguardo si perde nell’altopiano sconfinato, tra filari che all’occhio paiono non finire più. Il terreno è sabbioso, ben tenuto, pulito di ogni erba, con l’uva che mostra i suoi acini al sole cocente dei 1700 metri di altitudine. La Bottega Etchat di ottocentesca tradizione è stata acquistata dai francesi che producono uno dei vini migliori della zona. Dopo ripetuti e vari assaggi il ritorno in centro risulta piuttosto difficoltoso
Mentre mi addentro nel quadrilatero alberato della piazza principale di Cafayate sento una voce che mi saluta in italiano. E’ un giovane argentino dagli occhi espressivi e dal sorriso aperto. Alto, magro, con un fare dinoccolato occupa, mezzo coricato su di un fianco una panchina a ridosso di un leccio centenario. Con lui una giovane donna e una bimba piccola. Facciamo subito amicizia; conosce Milano e Firenze dove ha lavorato alcuni anni come artigiano del pellame, ma poi è ritornato a casa. Troppo caos, troppo stress, tutti sono indaffarati a cercare chissà che e lui ora vive in una piccola casa nella quebrada del Diablo allevando bestiame con un ritmo di vita tranquillo, senza scadenze, senza impegni pressanti e senza capi. “Io qui sono il padrone della mia vita!” conclude soddisfatto. E io, dopo una vita trascorsa nella morsa del lavoro e degli impegni, a cercare di capire se siamo noi o se è lui nel giusto.
Risalgo con un vecchio bus della domenica sera stracarico di indigeni che si sono spostati per la festività. Il mezzo che racconta una storia di viaggi su strade sterrate, è ricoperto di polvere ed i finestrini vengono lavati prima della partenza. La routa 40 che stiamo percorrendo appare isolata dal mondo, ma è invece piena di vita. Minuscoli villaggi mi accolgono con la loro umanità che saluta sorridente, che dimostra affetto e piacere nel vedere una straniera da quelle parti. Una siepe di fichi d’india che, per sopravvivere al clima torrido, si estende semi coricata, delimita alcuni piccoli cortili dando note di poesia a minuscole e modeste case. Animali sonnolenti osservano, immobili, il transito del nostro rumoroso automezzo. Muri sgretolati, casupole senza tetto che stanno collassando insieme a muriccioli in rovina con avanzi di cortili e di recinti, fiancheggiano la strada e, in tanta desolazione, qualche casa, sempre di fango, ma di più recente costruzione, sorge timidamente dal nulla. Nel frattempo giovani e anziani, bimbi bellissimi dagli occhi lucenti salgono e scendono alle diverse fermate portando vita in luoghi che parrebbero disabitati. Una nonna in piena quebrada, attende, accanto a una abitazione dove il camino sta fumando, l’arrivo della nipotina; noto che si assomigliano. La piccola era stata affidata alla partenza al nostro autista dai genitori e lui, affidabile, con sbirciate sghembe, l’ha sempre tenuta d’occhio durante il viaggio. Nella luce del tramonto cespugli giallo oro, illuminati dal sole del tramonto, fiancheggiano, rischiarandola, la parte finale del viaggio mentre

alcuni rapaci volteggiano nell’aria bollente della sera con le ali immobili: potremmo essere in Paradiso. L’arrivo ad Angastaco risulta stupefacente. L’autista sceso per aiutarmi con la valigia mi abbraccia e mi bacia, lasciandomi sorpresa, mentre i miei pensieri e le mie considerazioni sottili, intrecciate come cesti, in questo tratto di viaggio, si quietano con le ombre della notte. C’è ricerca dell’anima di questo popolo nel mio viaggio.
Sono in piena quebrada. Il sole sorge e scende dalle creste che incombono sulla strada come torri di pietra. Il vento caldo entra dai finestrini lasciati aperti e la polvere densa e fine del piano stradale si deposita in ogni dove. Strati sedimentari dalle forme più bizzarre arricchiscono il panorama della tortuosa routa 40 che costeggia il Rio Calchaqui, una zona tra le più affascinanti dell’Argentina. Come aveva ragione Alberto quando anni or sono mi decantava con entusiasmo misto a stupore questi luoghi! Arrivo a Molinos cittadina dignitosa che, come Angastaco fu stazione intermedia lungo la via transandina che portava in Cile e in Perù. Ancora a ‘900 inoltrato vi passavano convogli carichi di pellami, lana, coperte e legname destinati a essere venduti a Salta e da lì a Buenos Aires.
Con un bus collettivo arrivo a Cachi e da lì proseguo per Salta. All’uscita dal centro abitato si entra subito nel famoso Parco Nazionale Los Cardones, un immenso altipiano di 65.000 ettari di cactus candelabra che si ergono come sentinelle in un paesaggio quasi lunare. Bellezza spettacolare e incredibile caratteristica di questo luogo fuori dal comune. Valicata la Cuesta de Obispo, un’altra piana, puntinata da fiorellini rossi, ci attende. Questi sono la caratteristica della zona e vengono riprodotti dipinti su ogni prodotto di artigianato locale. Un vento gelido penetra sotto gli abiti raffreddando la pelle, ulula dietro una piccola cappella votiva avvolta in una nube nera che corre veloce inseguita dalla corrente. Rari cespugli legnosi tremano protendendosi verso la valle così lontana. La strada stretta e tortuosa che scende porta ancora i segni del maltempo dei giorni scorsi. Il percorso taglia la montagna con tornanti che, zizzagando con pendenza ragguardevole, consentono di perdere rapidamente quota. Gole, anfratti, pendii scoscesi, verdi di bassa vegetazione rabbiosa, fanno da sfondo al nostro procedere lento. Giovani donne in cammino lungo la routa hanno capelli folti e neri raccolti in una bassa treccia che brilla al sole. Intorno al viso dalla pelle scura la chioma forma due bande come di raso. I loro occhi sotto le lunghe ciglia sono caldi ed espressivi. Sulle spalle tengono piccoli appesi con un lembo di stoffa. Testine rotonde ciondolano addormentate. E’ un vero piacere vederle procedere con grande dignità. La povertà non diminuisce la dignità di questo popolo!
Salta, la città più vivace dell’Argentina settentrionale, offre molto ai visitatori, ma il mio viaggio deve proseguire, la mia meta non è questa. Dopo una sosta e una visita sommaria con un vetusto bus arranchiamo nella quebrada del Rio Grande che ha scavato e plasmato nei secoli formazioni desertiche spettacolari. Questa strada postale coloniale, che fu collegamento da Potosì a Buenos Aires, mi riserva molte piacevoli sorprese. Una tavolozza di colori è spruzzata sugli arditi pendii delle colline e ha dell’inverosimile. In meno di due ore approdo a Tilcara, situata a 2460 metri di altitudine, in un terminal polveroso, unto e caotico. Per me sarà la base di partenza per alcune escursioni nella quebrada di Humahuaca, patrimonio dell’umanità. Gli Spagnoli provenienti dal Perù colonizzarono, alla fine del XVI secolo, questa zona che conserva ancora oggi caratteristiche dei paesi andini. Una fortificazione precolombiana domina il panorama da una collina, essa è isolata in una ricca vegetazione di cactus cardones e lanoso.
Vago per la quebrada con vivo interesse e passione, sentendomi parte di un mondo che solo apparentemente pare così lontano da noi. Arrivo al villaggio di Pulmamarca, minuscolo rispetto all’immensità della natura che lo circonda. Il caldo è torrido e il villaggio è posto ai piedi del variopinto Cerro de los Siete Colores, dove natura e umanità si fondono nelle colorazioni più bizzarre e calde. Alle spalle del piccolo centro abitato mi inoltro nel Cerro che si innalza, con delle espressioni cromatiche inimmaginabili, in una natura stepposa, resa ancor più arida dal vento insistente che scende dalle gole circostanti. Pennellate di ocra, di rosso pompeiano, sfumature su sfumature conferiscono all’insieme un non so che di suggestivo e irreale. Trattengo il fiato dinanzi a tanta bellezza. Il percorso corre in una gola su di uno sterrato rossastro, ma le tonalità di marrone, di verde,

di rosso, l’aria calda che corre veloce accarezzando la pelle come in un abbraccio, trasmettono dolcezza nonostante l’ambiente selvaggio e compatto. Ognuno calpesta la propria ombra che quasi non si nota neppure. Scopro che questi contadini che incontro si guadagnano da vivere praticando un’agricoltura intensiva in piccoli appezzamenti di terreno irrigati e allevando qualche animale. Parecchi bimbi riempiono le loro vite e le loro povere e basse case sono fatte e “arricchite” solo dell’essenziale.
Sono appena sbarcata a Iruya, un puntino fuori dal mondo in una valle di magnifiche rocce multicolori. Il viaggio da Humahuaca è risultato estremamente interessante. Il bus d’epoca della società Panamericana arranca paurosamente su di una strada sterrata che si inoltra tra alti crinali in quota, valica i 4000 metri e si affaccia su dirupi scoscesi e vertiginosi. Scendiamo attraverso una serie di tornanti dove, zigzagando sul ripidissimo pendio, il percorso obbliga l’autista a prestare la massima attenzione. Qualche piccolo asino bruca solitario cespugli spinosi mentre alcuni rapaci dal nobile portamento si tuffano nei profondi canyon, disegnando nell’aria spirali prodigiose. Appoggiata al gomiti di uno stretto tornante una casetta di fango con un piccolo pannello solare è ricca di bambinetti che si tuffano nella polvere azzuffandosi. Al passare del bus fermano come d’incanto i giochi, agitano le loro manine tozze e sudice allargando sorrisi pieni di luce.
Un tortuoso torrente a fondo valle attende il nostro passaggio: il bus sulla carrareccia lo deve guadare. Il conducente con alcuni passeggeri del posto scendono a valutare la profondità del guado, buttano alcuni massi e poi… si passa con un pericoloso beccheggio del mezzo.
Iruya è un piccolo villaggio arroccato su di un pendio scosceso ed è capolinea fuori dal mondo. Le montagne incombono sulle case e le rocce come torri di marmo a picco sembrano volerle schiacciare. Le strette viuzze che lo attraversano verticalmente dalla piazzetta della chiesa salgono ripidissime. Le case a un solo piano, costruite una appoggiata all’altra, in scala, seguono la pendenza del terreno e propongono bottegucce di alimentari, minuscoli bar o abitazioni dignitose che offrono ai turisti un alloggio per la notte. L’ombra calda delle case copre la piazzetta e l’odore di polvere arriva dai viottoli stretti del paese dove, affacciati alle finestrine poste di rimpetto, ci si potrebbe quasi toccare. Straordinaria Iruyia: con il sole a picco, l’aria calda e la calma sonnacchiosa che vi regna. Poche anime abitano questo insieme di case segnate dalle intemperie e fuori dal mondo in questa valle dimenticata dal tempo.
Il fumo che esce da un forno costruito a terra con il fango mi attira. Due donne accovacciate stanno cuocendo tortillas. Spuntano da ogni dove bambini incuriositi dalla mia presenza. Belli, con gli occhi furbi e intelligenti, con la pelle ambrata, mi vengono appresso con curiosità e rimangono stupiti nel sentire che vengo dall’Italia. Due pentole nere di fumo, poste su di un braciere, fatto con quattro sassi, cuociono pasta per il pranzo mentre nel forno a legna arrivano a cottura le tortillas. Chiedo di acquistarne una, il profumo è invitante e l’ora propizia. Porgo alla più anziana cinque pesos e lei si sente in dovere di aggiungerne altre: quanta dignità in questo gesto! Lascio un pezzetto di cuore in questo piccolo recinto fatto di niente. I loro sguardi e i loro sorrisi, le mani alzate in segno di saluto, mi accompagnano mentre me ne vado.
Proseguendo il viaggio l’altitudine si intuisce e alcune insegne ce la confermano, mentre il fisico reagisce bene a questi 4000 metri sul livello del mare ma così vicini all’equatore. Sto percorrendo un immenso altipiano situato a ridosso delle cime più alte del Cile che in alcuni punti superano i 6000 metri. Macchie di licheni pennellano i pendii a mezza costa aggiungendo al panorama note pastello. Qualche guanaco sparuto e gruppetti di lama si girano, con aria annoiata, sonnolente e incuriosita al passaggio della mia auto. Non c’è anima viva. Scorrono i chilometri e i panorami. Il cielo è limpido, ampio e profondo come in una cupola, di una tonalità celeste intenso che sfuma in direzione delle Ande cilene innevate.

Una linea bianca all’orizzonte preannuncia con largo anticipo di un centinaio di km l’avvicinarsi delle Saline. Le Saline? A questa altitudine? C’è tutta una storia geologica alle spalle di questa immensità. Ne sono rapita. A mano a mano che si macinano chilometri lo spessore bianco diviene sempre più consistente sino a quando incrocio ed inizio a percorrere la statale transandina che porta verso il Cile. A questo punto mi trovo catapultata in un paesaggio surreale fatto di luce abbagliante e di bianco candido. Una estensione di 2700 chilometri quadrati mi avvolge in una luminosità incredibile. Senza occhiali da sole la discesa dall’auto sarebbe impossibile. Questo sale di origine preistorica appare come una distesa di ghiaccio e neve candida. Uno stradone asfaltato ben tenuto, ma reso biancastro dal pulviscolo trasportato dal vento taglia in due, con un rettilineo, l’immenso altipiano che pare ricoperto di neve. Mezzi di trasporto vanno e vengono con il loro carico candido serviti dal lavorio delle ruspe. Uomini sono all’opera per riempire sacchi di questo prodotto grezzo mentre un alto mucchio di sale viene preparato in un piazzale, accanto alla strada, per un carico con destinazione raffineria.
La polverosa routa 40 che partendo dalla Terra del Fuoco arriva alla Bolivia sta per terminare, siamo al km 4560 in piena puma. Quante volte in queste giornate ricche di scoperte ho in cuor mio ringraziato Alberto per avermi trasmesso la voglia e la curiosità di visitare luoghi così lontani ma tanto interessanti. All’improvviso, su di un gruppo di nubi che ha fatto improvvisamente la sua comparsa portate dal vento si vede proiettata, circondata da una aureola luminosa, una montagna rosso fuoco: è solo effetto dello spettro di Brockar, ma la visione è superba e sbalorditiva e non poteva esserci modo migliore per concludere questo mio viaggio. Sono arrivata, sono nel luogo del cuore